VINCENT DELERM  "Quinze chansons"
   (2008 )

Uomo piacente, blasè più che bello, aria da intellettuale terribilmente bohemienne, un’aria così sfacciatamente parigina anche se nato altrove, il quasi quarantenne Vincent Delerm, figlio d’arte di papà Philippe (noto scrittore di successo), è artista affettato da sempre maniacalmente attratto dalla citazione dotta e dalla fascinazione ossessivo-compulsiva per nomi propri e luoghi, capisaldi di un disegno che si può completare solo unendo i puntini come sulla Settimana Enigmistica. L’incanutito – copertina docet – Vincent imbastisce ed alterna ricordi melò spesso legati alla tarda adolescenza, boutade umoristiche e racconti impalpabili di amori dissolti, sciorina cultura multistrato concretizzando con “Quinze chansons” la propria inquietante maniacalità in forme nuove, sostanziate nella brevità dei brani proposti, la cui scarna essenzialità sembra ricalcare lo stile paterno, fondato sul racconto breve: dei quindici brani dell’album, ben sette non raggiungono i due minuti, rappresentando più che altro sagaci bozzetti capaci comunque di delineare storie compiute e bizzarre, stralci di filosofia esistenzialista, afflati di un romanticismo ben mascherato ma sempre vivido e pulsante. Immutato ed immutabile fin dagli esordi, Delerm rimane presuntuoso oltremisura: “Quinze chansons” è un brillante disco manieristico il cui limite maggiore risiede nella scoperta autocelebrazione di quella genialità che lo porta a stivare nelle tracce dell’album anche episodi talvolta inessenziali e non sempre utili nell’economia complessiva del lavoro. Il quale, è evidente, vive sulle canzoni tipicamente delermiane, ossia quelle ballate in bilico tra chansonne popolare ed atmosfere da soundtrack cinematografico, quasi inscenasse, musicandolo, un lungo sketch popolato di macchiette dall’umore cangiante. Lo humour caustico di “Je pense à toi” e “Un temps pour tout”, il charleston di “Le coeur des volleyeuses bat plus fort pour les volleyeurs”, o lo scherzo in levare di “Un tacle de Patrick Vieira n’est pas une truite en chocolat” (il titolo è già un programma...), si mischiano con i flashback, rigorosamente in bianco e nero ed al rallentatore, di “Et Francois De Roubaix dans le dos”, di “78543 habitants”, della toccante “North avenue”, o della pigra malinconia della conclusiva “La vie est la meme”, in un pastiche dal quale è facile lasciarsi sedurre, ammaliati dall’incedere esitante e dal timbro profondo di questo artista dichiaratamente elitario, supponente, vanitoso, deliziosamente pieno di sè. (Manuel Maverna)