DESERTSHORE "Drawing of threes"
(2011 )
Desertshore è il moniker sotto il quale si cela Phil Carney, ex chitarra degli inarrivabili Red House Painters (anche se solo da “Ocean Beach” in poi) di Mark Kozelek, col quale ha continuato a collaborare anche nel periodo Sun Kil Moon dopo lo scioglimento ufficiale dei Painters nel 2001. Con l’apporto determinante del pianista Chris Connolly, peraltro di formazione classica, Carney ha licenziato nel 2010 per la label CaldoVerde (l’etichetta dell’amico Kozelek) l’album di debutto del progetto Desertshore, un disco interamente strumentale nel quale ricamava atmosfere eteree tipiche del periodo Painters con l’eleganza e la consueta raffinatezza che ne hanno sempre contraddistinto la scrittura. A poco più di un anno di distanza da quell’esordio, tanto delizioso quanto prevedibilmente ignorato dal mondo, Carney e Connolly si ripresentano con un lavoro che costituisce – di fatto, sebbene nascostamente – una sorta di temporanea, fugace, trasversale reunion dei Red House Painters sotto mentite spoglie, non senza indizi sparsi simpaticamente a confondere le acque. Delle dieci tracce, ben sei questa volta sono cantate, mentre le rimanenti quattro (tre delle quali sono abbozzi di canzone di poco più di un minuto l’una), poste non a caso in coda all’album, sono soltanto strumentali; nelle prime sei la voce è proprio quella inconfondibile di Kozelek (indizio n°1), autore di tutti i testi (indizio n°2), accreditato sulla cover anche come co-produttore, bassista e chitarrista aggiunto (indizio n°3) ed indicato nella line-up non già in qualità di ospite, bensì al pari degli altri membri del gruppo (indizio n°4). Indizi sicuramente preziosi, ma che sono ben poca cosa al cospetto di quelle sei tracce, certo pregevoli seppure non irresistibili, ma pur sempre acqua limpida alla quale agli innamorati di vecchia data dei Painters sia concesso abbeverarsi con trepidante gioia e viva emozione, sul filo di dolci ricordi. E allora entrino pure in scena le note distillate sgranate da Carney tra echi ambient sulle abituali, infinite accordature aperte punteggiate dal canto sempre più baritonale e monocorde di un Kozelek in stato di grazia, sia quando trafigge indolente il rallentamento elettrico dello splendido opener “Diana”, che pare provenire direttamente dalle ultime session di “Old Ramon”, sia quando con inattesa giovialità ed inusitata verve intona la melodia campestre di “Mercy” su un’aria quasi-country. Il passo rilassato e cadenzato delle composizioni offertegli costringono Kozelek a mantenere un’intonazione pressochè priva di variazioni, che conferisce ai brani (“Turtle pond” su tutti) un che di fiabesco, come si trattasse di un singalong ciclico, una sorta di serafico mantra calmante, a metà tra l’ultimo lavoro di Mark come Sun Kil Moon e certe sue prove da solista; le canzoni non lievitano, bensì galleggiano fluttuando languide in un magma indistinto, quello che culla l’incedere trasognato di “Molle”, la delicata armonia di “Light flowers” e la scintillante progressione della conclusiva “Matchlight arkana”, che privata dei vocalizzi di Kozelek viene lasciata vagare delicata e sorniona nella sua trasparente bellezza, affidandosi soltanto alla musica impalpabile e cristallina di Carney e Connolly. Trentasei minuti toccanti per un riuscito e gradito assaggio dei tempi che furono, una finestrella aperta sulla mascherata riedizione – temporanea e non dichiarata, va ribadito – di una delle più grandi e sottovalutate band americane degli ultimi vent’anni. (Manuel Maverna)