MARLENE KUNTZ  "Ricoveri virtuali e sexy solitudini"
   (2010 )

I due stilemi – ma non senza un velo di personale disistima li definirei piuttosto “stereotipi” – che hanno contribuito ad ammettere Cristiano Godano ed i suoi Marlene Kuntz nel novero delle maggiori/migliori band alternative – o sedicenti tali – degli ultimi vent’anni di rock italico, sono probabilmente l’uso colto della lingua italiana, plasmata con verbosa e studiata eleganza in immagini forti ed evocative, e l’intreccio di linee chitarristiche di stampo sonico a creare un climax di derivazione noisy decisamente colto e palesemente intellettuale. Nel corso di un tragitto artistico segnato da otto album (ai quali vanno aggiunti raccolte e live) e da alterne fortune, ma comunque contraddistinto da un buon riscontro di pubblico e critica, il trio piemontese ha sempre cercato di mantenersi fedele al proprio credo espressivo, perdendo tuttavia per strada buona parte dell’inventiva che li aveva resi un fenomeno inedito ai tempi del debutto su lunga distanza datato 1994. Lungi dal rappresentare un punto di arrivo, “Ricoveri virtuali e sexy solitudini” è un disco discretamente imbarazzante nella misura in cui smarrisce non soltanto i tratti fondamentali sui quali il castello Marlene Kuntz era edificato, ma anche quel minimo di smalto e brillantezza che rendono piacevole – o quantomeno stimolante – l’ascolto di una canzone. Si tratta di un disco che crede presuntuosamente di riuscire ad ammaliare gli avventizi (non già i veterani) rispolverando qualche vetusto trucchetto con fare stanco ed annoiato, annoiando e stancando senza mai suscitare alcun interesse di sorta; sono canzoni che non trovano mai il bandolo della matassa, scialbe composizioni senza nerbo nè ispirazione, prive di un riff, di uno straccio di idea, di una melodia da ricordare o di un refrain azzeccato, di una storia intrigante o di un guizzo accattivante, canzoni esangui ed insignificanti costruite attorno ad ossature scarne e prevedibili, undici interminabili – e non per la lunghezza – tracce prive di spunti degni di nota. Godano recita senza troppa convinzione una brutta copia di sé stesso, costruendo qualche pasticcio furbetto ed ammiccante (“Ricovero virtuale”, “Pornorima”), inserendo un paio di impennate vecchio stile a ravvivare le code di brani stanchi (“Io e me”, “Vivo”), gettando alle ortiche i pochi istanti di luce rimasti (“L’artista”, “Scatti”), vergando per il resto ritornelli insipidi (“Paolo anima salva”), al più vagando nella piattezza insulsa di episodi incolori (“Oasi”, “Orizzonti”, “L’idiota”) che affossano in un annoiato anonimato un album inutile. Disco che sarebbe scorretto definire “brutto”: peggio ancora, è un disco vuoto. (Manuel Maverna)