LOW "I could live in hope"
(1994 )
Originari del Minnesota ed attivi da vent’anni, i Low sono un geniale trio la cui principale peculiarità risiede nella ricerca di una espressività tanto dimessa quanto intensa e vibrante. “I could live in hope” è il lavoro che li vide debuttare nel 1994 all’insegna di un sound crepuscolare ricamato da chitarre distillate, da ritmi lenti e dal rimbombare ovattato del basso, elementi che permisero loro di costruire una musica trattenuta, agonizzante, notturna, una trance ipnotica fondata sulla staticità e sulle atmosfere subdolamente mantriche che questa suggerisce. Prevale ovunque una forte eco di languida trascendenza, una immaginifica realtà parallela nella quale i Cowboy Junkies interpretino brani dei Cure (“Cut”), o una landa desertica con Chris Isaak a ricamare melodie da Roy Orbison (la splendida “Words” in apertura). Rispetto all’ottundente senso di opprimente tetraggine che ammanta la scrittura di Robert Smith, naturale ed istintiva pietra di paragone (sebbene si tratti di un autore calato altresì in una dimensione di puro espressionismo autoreferenziale), prevale nei Low un’andatura compassata, sfuocata, trasognata, figlia più delle soffuse, salmodianti cantilene dei Red House Painters (il riferimento è indifferentemente ai dieci minuti di “Lullaby” o ai sette di “Down”, e non a caso Mark Kozelek ha riproposto su “The finally lp“ una interessante rilettura di “Lazy”), e non già dello spleen claustrofobico tanto caro all’introverso esistenzialismo di scuola albionica. Gli impasti e gli intrecci vocali rimandano sì ad una matrice folk-core, ma anche al blues più rallentato e suggestivo di certi Morphine (“Drag”), così come gli arpeggi dilatati ed insistiti su tappeti sonori scarni ed essenziali, privi di complessità e di variazioni di sorta, affogati in un tono generale pigramente depresso, ma sostanzialmente innocuo, sembrano portare dalle parti del pop etereo dei This Mortal Coil: come se si trattasse di una aliena forma di psichedelia, la trance delicata dei Low mesmerizza senza atterrire nè stordire (ad esempio nei riverberi ciclici di “Rope”), scevra di vertici come di abissi, di guizzi come di lungaggini. Non è musica triste, non è romantica, non è misterica, non è inquietante: forse è solo una lenta musica rilassante che gode del proprio fluire, come un fiume che scorra placido, sempre identico a sé stesso, in una notte infinita. (Manuel Maverna)