LOVE SPIT LOVE "Love Spit Love"
(1994 )
Nella mia personale galleria, Richard Butler è The Voice, il cantante numero uno in una vita di ascolti, l’ugola dalla quale accetterei di sentir declamare anche l’elenco del telefono. Dopo lo scioglimento degli inarrivabili Psychedelic Furs, Richard varò col fratello Tim ed il determinante apporto di Richard Fortus (Guns n’Roses) il progetto Love Spit Love, all’insegna di sonorità indurite e di un ibrido stilistico discutibile per coerenza e levatura artistica. The Voice c’è sempre, ma purtroppo le canzoni latitano, mancano di ispirazione, di tensione emotiva, rivelandosi a tratti scariche, prive di attrattiva, esercizi di stile non sempre riusciti, riempitivi che si lasciano scordare in tutta fretta. Gli episodi migliori sono in definitiva quelli nei quali Richard Butler non cerca di essere ciò che non è. Non è un arrabbiato cantante rock: è un malinconico esistenzialista dai trascorsi burrascosi, un’anima persa e ritrovata nelle sabbie mobili della vita, performer sensibile e carismatico che si muove a suo agio nell’elemento a lui più congeniale, ossia la ballata triste, poco importa se dai toni soft (“Half a life”) o dall’accento ritmico sostenuto (“Am I wrong”). Quando azzarda ad accostarsi ad altre forme-canzone, il buon Richard rischia invece di soccombere al brio rockettaro di Fortus, la cui mano è evidentissima nella cadenza nevrotica dell’opener “Seventeen” così come nella tempesta di dissonanze di “Green” e nel grunge mainstream di “Change in the weather”: sono episodi nei quali Fortus la fa da padrone sottraendo la scena al vocalist, accentuando sì lati della sua musica che prevaricano sul mood intimista proprio di Butler, ma impoverendone lo spessore in maniera inopinabile. Non bastano a risollevare le sorti di un album forzato le atmosfere à la Cure di “Please” o lo sfuggente pop elettrico (un altro classico butleriano) di “Superman”, lo scherzo in levare di “Jigsaw” o l’ingorgo claustrofobico di “All she wants”: a prevalere è purtroppo un senso di stucchevole piattezza, quella che affligge l’inutile “More”, che annega il buon incipit di “Codeine” in un chorus debole e che affossa “St. Mary’s gate” in un’inconcludente nenia percussiva. The Voice si riapproprierà di sé stesso nel successivo “Trysome eatone”, e soprattutto nella decisione di riformare – non per proporre nuovo materiale – i Furs, tornando ad essere il cantore di uno spleen intenso e toccante, un pierrot lunaire dalla lacrima facile e dal cuore tumultuosamente inquieto ed affranto. (Manuel Maverna)