VERDENA  "Il suicidio dei samurai"
   (2004 )

“Il suicidio dei samurai” è un disco romantico. A suo modo – un modo trasversale, contorto ed un po’ perverso – è un disco di canzoni d’amore. A suo modo – sempre obliquo e indiretto – è anche un disco facile. Facile a tal punto che Alberto Ferrari, uno che aborrisce la semplicità, deve ricorrere ad ogni utile stratagemma per nasconderla e nascondersi. Celata dietro strati di schermi protettivi, difensivi, ingannevoli, alberga un’intima tenerezza che dona accenti di fuggevole e transitoria melanconia a brani mai così accessibili se confrontati ex-post con gli altri quattro album della band bergamasca: se il debutto omonimo era infidamente fruibile – acerbo, veloce, diretto – e “Solo un grande sasso” non era insormontabile nella sua solenne sublimazione di una psichedelia distorta e visionaria, “Il suicidio dei samurai” rappresenta l’acme della godibilità, forse l’apogeo della commercialità (“Phantastica” è splendidamente easy) raggiunta dai Verdena in oltre un decennio di onesta carriera, tanto da quasi legittimare l’operazione di rigetto concretizzata nell’ostico “Requiem” tre anni più tardi e proseguita nell’eterogeneo (confusionario?) “Wow” di recente pubblicazione. E’ vera tenerezza quella che traspare dalle tessiture arpeggiate di “Luna” o di “Mina”, e c’è addirittura una parvenza di afflitto sentimentalismo perfino nel furioso delirio elettrico che dilania la sghemba asincronia (basso e batteria si incastrano con entrate sfasate, come quando Ghezzi parlava a “Blob”) di “Balanite”, chiusa da urla sguaiate e feedback assordante in un climax parossistico; ma è autentico sentimentalismo anche quello che permea “40 secondi di niente”, che non sfigurerebbe in un disco dei Negramaro (sic!), ed è vicina ad un afflato sinceramente poetico anche l’esplosione tastieristica di “17 tir nel cortile”, con un crescendo che ricorda i Mercury Rev ed un testo quasi comprensibile. L’abuso di tonalità minori e la saturazione pressochè totale del suono trasformano ogni brano in un ingorgo emotivo e strumentale che non concede spazio residuo ad alcuna aggiunta: brani come l’iniziale “Logorrea”, costruita attorno ad un martellamento acido, la frenetica “Elefante” o la più elaborata “Glamodrama”, con una scintillante parte centrale affidata ancora alle tastiere, costituiscono fulgidi esempi di un sapiente ricorso all’arricchimento degli arrangiamenti più che alla complessità strutturale dei pezzi. Imprescindibile chiave di volta di questa insolita architettura è Alberto Ferrari, la cui centralità si esplicita, al di là dello sforzo compositivo, sia nell’ostentato ed insistito ermetismo delle liriche (e il buon Alberto di ciò consapevolmente si bea), sia nell’adozione di un singolare stile di canto che contribuisce in misura determinante a generare nell’ascoltatore un contrastante senso di fastidio, attraverso il ricorso sistematico alla negazione della ritmica del pezzo tramite la voce. La dilatazione delle vocali e l’uso di poche parole - o poche sillabe - in battute che ne potrebbero contenere più del doppio (il chorus di “Luna” o quello di “Glamodrama”, dove vorresti cantare, ma ottieni da Alberto solo un suggerimento “sbagliato” su come farlo) crea un effetto stordente, avvolgente, spiazzante: psichedelico, per dirla in breve. Sono sì canzoni d’amore, ma i ragazzi sono costretti a mascherarle per non sembrare troppo mainstream (non fosse mai!): è ciò che succede in “Far Fisa”, che ricicla lo stesso trucco di “Balanite” velocizzandolo (e ricordando la “Disintegration” dei Cure per più di qualche battuta), con Alberto che canta su un tempo che è sì e no un quarto di quello tenuto dalla batteria, affidando ancora una volta il ritornello a due sillabe allungate prima che la canzone si plachi improvvisamente e collassi in un buco nero. E’ un disco con molte luci, ma sono luci scure che proiettano ombre lunghe, come quella che sinistramente si staglia sull’abisso spalancato dalla cadenza infernale della conclusiva “Il suicidio del samurai”: su un rallentamento ossessivo, il minuto e mezzo di frasi sbavate del testo viene sepolto sotto tre minuti di noise lancinante, lasciando al frastuono malato della coda strumentale ed ai suoi rumori assortiti di fondo il compito di chiudere nel modo più inquietante possibile un’opera di un’intensità emotiva sbalorditiva e strabordante. Ed anche questo stralunato epitaffio, questa oscura suicide note – a suo modo – è una canzone d’amore. (Manuel Maverna)