THE GOOD, THE BAD & THE QUEEN  "The Good, the Bad & the Queen"
   (2007 )

Damon Albarn è bello, ricco e famoso, furbetto e preparato, perfino simpaticamente stronzetto quando biascica litanie sornione nel suo crooning impastato. Il golden boy gioca da sempre a rimescolare le carte in tavola, dispensando a piene mani grigiore british e spleen albionico, partorendo trame che sanno molto – ovviamente - di Beatles: ma il suo non è affatto brit-pop, è soltanto brit. Albarn è un tastierista, ed è quasi inevitabile che l’impianto sonoro di questo album (più che nei Blur, dove la forte anima/presenza chitarristica di Graham Coxon gioca un ruolo fondamentale nel conferire ai pezzi un taglio diverso) viri con decisione verso un’oscura elettronica dai toni liquidi e notturni, in dodici tracce che si somigliano tutte terribilmente e che riescono ciononostante a risultare non sgradevoli – ma noiosette anzichenò - sulla lunga distanza. C’è pochissimo spazio per la chitarra di Simon Tong (ex Verve, dove rivestiva anche il ruolo di tastierista), chiusa in un labirinto elettronico che sfiora di volta in volta dub, trip-hop, lounge e psichedelia in un cupo rimbombare di bassi e moog ad un passo dagli anni sessanta. Il canto indolente di Albarn ben si adatta a queste composizioni ingannevoli, patinate ed ipnotiche, prive di impennate e di asperità, rese falsamente complesse da un approccio cervellotico ed intellettualoide che può risultare indigesto, ma che ammanta l’album di una sottile, infida malìa. Incantesimo o maleficio? Più probabile si tratti di un’ambigua stregoneria ordita dallo sciamano Albarn con la sua quasi virtuale combriccola di accoliti prestati al sortilegio. Il maghetto estrae dal cilindro tutti i trucchi del mestiere: apre con una “History song” basata su un unico elementare giro chitarristico drogato da un’effettistica che vira verso il reggae, per proseguire col doo-wop terzinato con coretti sixties e impasti beatlesiani di “80’s life”, con l’ingorgo di “Kingdom of doom” (con un ritornello ad un centimetro da McCartney) o col pasticcio indigeribile di “Behind the sun”, passando per il contorto sviluppo ritmico di “Three changes” e chiudendo con la coda chiassosa della title-track. Sotto la superficie levigata strisciano canzoni deboli e prevedibili, la cui esile fragilità è opportunamente e furbescamente occultata dagli arrangiamenti (il piano scolastico di “Northern whale” che viene sommerso dagli effetti) e dai suoni, manipolati dalla produzione accorta di Danger Mouse. Solo di rado i brani paiono poter vivere da sè (forse appena le scarne melodie di “A soldier’s tale” e di “Green fields”): il segreto del disco risiede tutto nel lavoro di produzione, senza il quale le canzoni non esisterebbero nemmeno, vittime ciascuna della propria impalpabile inconsistenza. Private della patina di elettronica effimera che le riveste (“The bunting song” e “Nature springs” sono due vuoti), le tracce lascerebbero soltanto un ottundente senso di noia, reso ancora più insopportabile dalla cantilena infinita dispensata da Albarn, uggiolante e monocorde dal principio alla fine. (Manuel Maverna)