THE CURE  "Bloodflowers"
   (2000 )

A quattro anni dall’ultimo lavoro in studio, i Cure tornano, il 14 febbraio 2000, con “Bloodflowers”, con l’obiettivo di recuperare parte di quella critica e di quei fan (meno attenti?) persi con il precedente “Wild mood swings”. Lunghissima è la gestazione per l’undicesimo album della band inglese. Già pronto da mesi, il sempre più pignolo Robert Smith attese il mese di febbraio (e con esso il nuovo millennio) per il suo “rilascio”, rallentato, per spirito perfezionista, sia in fase di missaggio, sia di arrangiamento. Quasi a testimoniare la continua forza propulsiva del leader, la copertina lo ritrae, unico fra tutti i componenti, in primo piano, con un sorriso beffardo che, probabilmente, odora di promessa: sono tornato!!! E i dubbi (se mai ce ne fossero stati) sono cancellati dal brano d’apertura, nel quale risulta immediatamente facile tornare a sognare. Mr Smith ci riporta fuori dal mondo in cui viviamo, sussurrandoci “Out of this world”, attraverso una perfetta combinazione tra chitarra acustica ed il resto degli strumenti. Ma, dopo l’estrema dolcezza, l’ascoltatore entra negli abissi per osservare il leader cadere in “Watching me fall”. Nessuno spiraglio di salvezza è concesso, in un incubo lungo più di undici minuti. Decisamente meno graffiante è “Where the bird always sing” (forse il capitolo meno riuscito di “Bloodflowers”), mentre “Maybe someday” è, sicuramente, il pezzo più movimentato dell’album. Per le sue caratteristiche è facile considerarlo, infatti, come il singolo “mai pubblicato” del lavoro. Con “The last day of summer” si può ascoltare, per liriche e musicalità, uno dei più tipici viaggi-Cure. Lunga introduzione (dominata dalla chitarra di Smith e dalla sessione ritmica) e tanta malinconia nell’ultimo giorno dell’estate. “There is no if” racconta una storia d’amore, nella quale la parola 'sempre' assume più significati; mentre con “The loudest sound”, Robert Smith usa una metafora per rappresentare la forza e l’energia generate dal sentimento tra un uomo e una donna. Ma, forse il picco più alto di “Bloodflowers” arriva al penultimo brano. Chi è oggi Robert Smith? È tutto qui, con i suoi sogni, i suoi dubbi e le sue tristi prese di coscienza. Con “39” viene accantonata la dolcezza. Il sound si fa più duro e malato, e padrone incontrastate diventano le chitarre di Smith e Bamonte. Al romanticismo dei pezzi precedenti, arriva la sconsolazione per la vita e l’amarezza per tutto ciò che non sarà mai più: “il fuoco si sta spegnendo e non c’è più niente da bruciare”. L’epilogo è lasciato alla traccia omonima che ricorda, nell’incedere, “Closedown” (da “Disintegration”), soprattutto nella sessione ritmica. Robert Smith si congeda, ancora una volta, con una storia d’amore e con un dubbio perenne al quale non riesce a dare una risposta: 'sempre' esiste? “Bloodflowers” non è un album qualunque. In realtà non ne esistono nell’intera discografia dei Cure. Ma, è sicuramente l’album di un gruppo che conferma la creatività di un “ragazzo immaginario”; uomo, artista e poeta che, anche nel nuovo millennio, ribadisce il suo intimo feeling con il genio, la poesia e la creatività. Al lavoro (ultimo per l’etichetta Fiction) non seguì la pubblicazione di nessun singolo e, secondo lo stesso Robert Smith, “Bloodflowers” dovrebbe essere collocato a conclusione di una trilogia dark, iniziata con “Pornography” e proseguita con “Disintegration”. (Gianmario Mattacheo)