THE CURE  "Three imaginary boys"
   (1979 )

“Un album pop”, avrebbe poi detto Robert Smith di questo suo esordio. Certo, visto che nei successivi si sarebbe andati a perlustrare i più cupi meandri della psiche distorta del Soggetto, questo primo album sembra quasi un gioco da ragazzi. Una specie di pop-punk, più che altro, con ritmi veloci, incazzosi come di giovincelli che farebbero qualsiasi cosa pur di andare a lavorare, e pochi – se vogliamo – accenni a quello che sarebbe stato. Perché è vero sì che si parte con l’ipnotico gocciolio del rubinetto di “10:15 saturday night”, ma poi si viaggia spesso su una rapida giostra elettrica: “Grinding halt”, per esempio, o la delirante “So what”, lungo elenco di etichette trovate in un negozio (!). Brani rapidi, forse senza un vero centro di gravità permanente, come di chi ha tante idee ma ancora non sa bene quale sviluppare. O, come pontificherà in seguito Robertino nostro, ancora non aveva in mano lo scettro del potere, e veniva messo a fare un po’ di tutto. Ci sono anche lavori un po’ più lenti (“Another day”, o la stessa titletrack), una cover di Jimi Hendrix (“Foxy lady”), una specie di horror-movie con tanto di urlo finale (“Subway song”), una lovesong per un macellaio (“Meathook”, sarebbe piaciuto ad Alba Parietti) tanto per farsi mancare nulla. Poco, a dir la verità, che faccia pensare a come questi ragazzi sarebbero diventati i paladini delle traggedie umane, tanto che loro stessi – pur non rinnegando questo disco – avrebbero cominciato veramente a cercar la loro strada dal successivo “Seventeen seconds”. Questo è un lavoro giovanile, che fa saltare in aria gli appassionati quando, nei concerti, viene riproposta una “Fire in Cairo” a mò di memorandum. Per la cronaca, mancano sia “Killing an arab” che “Boys don’t cry”, singoli che faranno poi la storia dei Cure: per trovarli, meglio andare a cercare la versione USA di questo primo lavoro, “Boys don’t cry” appunto. (Enrico Faggiano)