QUEENSRYCHE  "Operation: mindcrime"
   (1988 )

Venivano da Seattle, ma non erano grunge, perché è roba che ancora non si vedeva in giro. Erano metallari, ma non erano come gli altri. Rewind. Fine anni '80, America: a molte hard rock band, più che con chitarre, basso e batteria, il successo era arrivato aumentando l'utilizzo di lacche, eyeliner e belle pose plastiche da macho fighetto. Citofonare Poison, Motley Crue, Skid Row, Twisted Sister e tutta la scena che, probabilmente, salì le classifiche sfruttando anche l'ottima scia di Bon Jovi (da quella parte dell'oceano) e degli Europe di qua (guardatevi Joey Tempest all'epoca e notate una certa somiglianza con tal Lena Biolcati). Non era però tutto così: Iron Maiden a parte, c'era anche chi voleva far musica dura senza prima passare dal casco per parrucchiera. Loro ci stavano già girando attorno, a quello che veniva chiamato "complex metal": non solo gnocca e macchina, insomma, non solo brillantini, ma anche qualcosa di diverso. E questo concept album su una "Sister Mary" uccisa, su un Mister X capace di modulare le menti, roba che sarebbe piaciuta ad Orwell, per intenderci, ci fecero non solo il successo, ma anche una specie di film. Era musica, per le orecchie di chi amava le chitarre ma non riusciva a ritrovarsi nel "suono la batteria, faccio smorfie, venite a letto con me" che imperava. E si sentivano già prodromi di roba industriale, contaminata, che avrebbe fatto il successo dei grungettari successivi: loro si ritrovarono nelle classifiche, e con il successivo "Empire" trovarono anche il lentone ("Silent lucidity") che non può mancare in un qualsiasi curriculum di band metallara, cotonata o no. Intanto, "I don't believe in love" ruppe gli schemi, passando nelle radio e mostrando, al mondo intero, che si poteva essere metallo senza dover per forza abusare con il balsamo e il rimmel. Un capolavoro dell'heavy, che riesce ad essere puro ma anche fruibile a chi non è amante spassionato del genere. (Enrico Faggiano)