HOLLY JOHNSON  "Blast"
   (1989 )

Si erano sciolti quasi due anni prima, dopo un album di successo spaziale, e un'opera seconda non male, ma in tono minore. Ma si erano sciolti, tra polemiche (ma suonavano veramente?) e rimpianti. Ovvio, qualcosa dal front man - quello che diceva di essere nato in Sudan, forse ad imitazione dello Zimbabwesco Freddie Mercury - lo si aspettava. Intanto si fece precedere dal corista, Paul Rutherford, che si infilò nell'acid house ("Get real", discreto successo, con liriche tipo "palesati, dimostra che non sei un bluff", chissà a chi rivolte...), poi toccò a lui. Che, ahinoi, aveva perso completamente il tocco magico. Due o tre discreti singoli, magari con dignitose apparizioni in classifiche, li fece anche, e "Love train" prima, e soprattutto "Americanos" poi, fecero anche bene. Ma quella rabbia, quel modo magari anche costruito di essere oltraggioso, si erano totalmente persi. Gli stessi video, un tempo punto di forza dei Frankie Goes To Hollywood - avevate capito che si trattava di loro, spero -, sembravano usciti dagli studi cinematografici di Kylie Minogue, per intenderci. Pop, nemmeno di grande fattura, per capire che non era il caso di andare tanto avanti: aveva venduto per inerzia, ma chi lo aveva amato anni prima sperava che il "trenino dell'amore" fosse qualcosa di scandaloso, non certo roba da bambini. Lo capì anche lui, che dopo altri tentativi (curioso "Legendary children", 1993, con un listone di personaggi famosi tutti rigorosamente omosex) smise con la musica, dedicandosi soprattutto alla pittura. Dato per malato di AIDS, forse anche morto, recentemente ha avuto contatti dai ricostituiti FGTH per riunire le forze. No grazie, la sua risposta. (Enrico Faggiano)