DEPECHE MODE  "101"
   (1989 )

Non li sopportavano. Uno fa tanto per dire che gli stadi sono fatti per il rock, specie in quell’epoca in cui il “rock da stadio” diventava quasi un genere, tra i Simple Minds di “la-la-la-la-la donciuuu” e gli U2 che urlavano “uizoruizautiuuuu”. Uno ripete che i live sono fatti per chitarre, batterie, magari chiome che svolazzano al vento e colli che vanno su e giù come le glam-band americane del tempo (dai Poison ai Motley Crue, spesso più lacca che non vero rock). Poi arrivarono ‘sti quattro soggetti, tre tastiere ed un canterino, che dopo anni di successi senza mai una vera numero uno, almeno negli UK, sbarcarono negli States e riempirono le piazze. Fino ai millemila del Pasadena Stadium, fatto ballare e impazzire utilizzando solo keyboards. Era stato difficile, fino a quel punto, definire i DM all’interno di un genere musicale, dato che stavano già iniziando a sopravvivere alla fine della new wave, e alla morte delle band sintetizzate. Ma erano già stati capaci di svicolare, quando le allegre sinfonie di “Just can’t get enough” e il pop facile di Vince Clarke venne sostituito da quello, ben più cupo, di Martin Gore. Dalle discoteche al synthgothic, aprendosi però alle classifiche: i critici non li potevano declassare a mero prodotto commerciale, ma accidenti, non potevano ammettere che erano qualcosa di grande. Gore-Gahan-Wilder-Fletcher se ne fecero un baffo, attaccarono alle prese non tanto chitarroni ma i loro macchinari, versioni reloaded di quelle, esordienti, che come tanti altri ragazzi sintetici dell’epoca scopiazzarono, con l’emozione del cuore, da quelle dei Kraftwerk. E dimostrarono, con un live sontuoso quanto monumentale, che si può fare rock anche in questo modo. Soprattutto, “101” è forse il miglior disco dal vivo di una band non propriamente fatta di chitarra-basso-batteria, superando il clichè per cui i gruppi elettronici raramente sopravvivono all’uscita dagli studi di registrazione. E, paradossalmente, meglio di tante raccolte: capolavoro dei Depeche Mode all’apice del loro periodo cupo, le cose sarebbero cambiate ben presto, loro malgrado. (Enrico Faggiano)