LOU REED  "Berlin"
   (1973 )

Dopo il successo di “Transformer” Lou Reed mette in campo tutto il suo spessore artistico, pubblicando “Berlin”, un disco strano, che gioca sui significanti e sui significati, mischiando le carte in tavola e mostrando chiaramente il talento unico del cantante dei Velvet Underground.

I testi sono tra i migliori della carriera di Reed, capaci di concentrare tutto il dolore, la rovina, la distruzione di ogni sentimento. Perché in fondo “Berlin” è un concept sulla fine della felicità, espresso attraverso un’alternarsi frustrante di emozioni di plastica e lancinanti fendenti di dolore, che trovano riscontro nella parabola che i 10 brani vanno a formare.

L’entusiasmo quasi paesano che implode in un desolante affresco moderno, tetro e deprimente, le suadenti note di piano della title track suscitano suggestioni di un’aridità gelida, che è però contrastata dal calore (comunque distaccato) dei versi: “It was very nice. Oh, honey, it was paradise”.

Questo è il prologo, il punto da cui si sviluppa ciò che “Berlin” rappresenta: cioè la crisi, crisi amorosa, crisi psicologica, fisiologica ed, in fin dei conti, esistenziale, che dalla vita di Reed si traspone in musica, universalizzandosi.

“Lady Day” amplia ulteriormente la sensazione di aridità; le emozioni narrate ci scorrono sopra lasciandoci indifferenti, merito del canto di Reed che, mantenendosi distaccato, ci indirizza verso la prospettiva che l’artista vuole imporci. L’impalcatura musicale è ugualmente efficace, schizofrenica ed imprevedibile.

“Men Of Good Fortune”, cioè come i ricchi siano infelici e i poveri anche peggio, è una visione moderna sul mondo, cantata con l’instabilità vocale che caratterizza Lou in questo disco. “Caroline Says I” raffigura la fine di un rapporto. “Caroline says that I'm just a toy, she wants a man, not just a boy” ben esprime l’aria che si respira, ricamata su un tessuto musicale vivace e magniloquente (tipico del produttore Ezrin), in forte contrasto con il tema del brano.

Caratteristica peculiare di “Berlin” è il raccontare avvenimenti tristi e meschini con canzoni allegre ed a tratti parodistiche. Fatto questo che ben esprime la totale perdita di moralità e sensibilità della società moderna. Il brano successivo rientra in questo tipo di canzoni; il tema è di quelli pregnanti (“How do you think it feels, when you're speeding and lonely?”), ma l’atmosfera è tutt’altro che intimistica. I toni sono da banda di paese, con degli esuberanti fiati in coda.

In tal senso “Oh, Jim” è uno degli episodi più riusciti; un ottimo risultato dello stridente connubio tra testi e musiche apparentemente inconciliabili. I fiati questa volta si propongono in veste più catartica e concitante di prima. A metà la danza si trasforma in un monologo oscuro. È il primo tassello che trasforma la finta spensieratezza iniziale in puro dolore, magnificamente espresso dai numerosi tocchi di classe presenti nelle liriche (“When you're looking through the eyes of hate”). Da qui parte la spirale di depressione che culminerà in “The Bed”.

“Caroline Says II” è totalmente diversa dalla parte I. Qui si respira il vento gelido dell’Alaska, ugualmente riscontrabile nei testi e nella musica. Con “The Kids” sconfiniamo nei territori della ballata da cane malato, solitaria e sconsolata, è un continuo rimuginare di una madre a cui vengono portati via i figli.

“The Bed” è ancora più arida e desolata. “And this is the place, our children were conceived… And this is the place where she cut her wrists”. Le parole sono taglienti, quasi dolorose mentre vengono lentamente pronunciate. Il significante che va a coincidere con il significato profondo che l’artista voleva dare alla sua opera. Nel finale, come la title track preannunciava la desolazione incontrata nella seconda metà del disco, “Sad Song” riprende i toni frizzanti della prima parte, con un coinvolgimento anche maggiore.

“Berlin” è uno dei lavori fondamentali di Reed solista. Capace di esprimere sensazioni graffianti e sofferte, difficilmente può essere collocato in una corrente musicale definita. Si tratta infatti di un opera a sé stante, lontana da qualsiasi maniera stilistica ed incentrata sul rapporto tra mezzo artistico e finalità espressiva.

Reed gioca su questo rapporto difficile, creando una doppia visione del dolore, dal punto di vista moderno e dal punto di vista “classico”. I due codici si scontrano nel disco, dividendolo in due parti, non estranee, ma comunque differentemente caratterizzate e concepite. Un album immortale. (Fabio Busi)