PEARL JAM "No code"
(1996 )
Non facile la situazione in cui i Pearl Jam si trovavano dopo aver pubblicato “Vitalogy”, essendo questo un punto d’arrivo difficilmente migliorabile, capace di racchiudere in sé l’essenza stessa del gruppo e gettando le basi per un possibile sviluppo del suono della band. Questo disco, invece che raccogliere il testimone e proiettarsi verso il futuro, si propone come un difficile aggiornamento di quello che “Vitalogy” era stato. Non troviamo infatti un vero e proprio cambio di stile, né alcuno sviluppo particolarmente evidente, bensì una lieve e superficiale spolverata che muta leggermente l’impasto musicale, senza però introdurre nulla di veramente nuovo. Si rimescolano gli stessi ingredienti, in modo da far apparire la ricetta diversa, ma il gusto è lo stesso. Ciò non fa altro che indebolire i brani, che, pur essendo rispettabilissimi, si perdono nell’oceano di capolavori che, dopo solo 4 dischi, i Pearl Jam sono stati capaci di regalarci. Siamo di fronte ad un lavoro di normale amministrazione, scritto senza troppi sforzi creativi e senza nessun particolare lampo di genio. Un disco discreto quindi, perché comunque caratterizzato dalla qualità dei Pearl Jam più puri, ma assolutamente distante dal livello dei primi tre dischi, che con il passare degli anni sembrano sempre più paradigmatici del mondo del gruppo. Da questo punto Eddie Vedder e soci continueranno a rincorrere loro stessi, alla ricerca del loro passato, sempre intenti a ricreare ciò che avevano già concepito da tempo; in questo scenario “No Code” è uno dei lavori più riusciti e solidi. Non è un esercizio di stile, non c’è maniera, semplicemente ci sono pochissime novità e non si migliora ciò che si prende dal passato, essendo ciò già perfetto e compiuto. Semplicemente si ripropongono le stesse cose con qualche variante. Il livello dei singoli brani si mantiene su livelli piuttosto buoni; “Off He Goes” è ben distante dal fragore catartico di “Better Man”, ma resta una ballata molto orecchiabile. “I’m Open” ricorda invece certe atmosfere rarefatte in stile “Indifference”, senza la stessa commovente drammaticità. Un discorso che si potrebbe fare per la maggior parte dei brani, ma nonostante ciò, se inquadrato al di fuori della storia del gruppo, il disco difficilmente può essere criticato. Ci sono molte belle canzoni, forse non eccelse, ma la qualità non è certo in difetto. Non mancano le potenti cavalcate tipiche della band di Seattle. L’epica “Red Mosquito”, la debordante “Habit”, la dinamitarda “Lukin” o la graffiante “Hail Hail” sono tutti nobilissimi brani, tutt’altro che scadenti, ma chi li metterebbe mai sul piano di una “Animal” o di una “Why Go”? Nessuno, credo. Il muro di chitarre si affievolisce di tanto in tanto e lascia sbocciare qualcosa di più fresco. “Present Tense” è un magmatico crescendo ricco di misticità, “Sometimes” una straniante nenia agrodolce. Mentre “In My Tree” rilancia la carica ipnotica di “Aye Davanita”, inserita in un paesaggio nebbioso ed evocativo, “Who You Are” si sbilancia ancora di più con la sua cantilena ubriaca. “Smile” si posiziona a metà, con le distorsioni e la fisarmonica a supporto del rabbioso inveire di Vedder. Il disco si chiude tra le coccole di “Around The Bend”. Tirando le somme, “No Code” è un disco discreto, sicuramente non brutto, ma che inizia a mostrare il logorarsi di una formula sonora ampiamente illustrata e ben espressa. Con questo disco i Pearl Jam tentano un rinnovamento, ma lo fanno troppo timidamente, forse perché poco convinti di intraprendere una nuova strada. Nonostante questa mezza sconfitta, il disco non demerita ed è gradevole ascoltarlo. (Fabio Busi)