I CANI  "Post mortem"
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Dice: “Bellissimo!”.

L’altro: “Pessimo, che delusione”.

E ancora: “Capolavoro!”.

Ma anche: “Fiacco, non è più lui”.

Polarizza l’opinione, è fortemente divisivo: lui sarà contento, di sicuro se lo aspettava.

Mentre, non senza altezzoso livore, la fanbase si accapiglia esagitata, difficilmente – penso io – questo nuovo inatteso album farà proseliti tra coloro che non masticano il Verbo, o che lo masticano al massimo da “Aurora”, o che Contessa lo conoscono solo di sfuggita perché quella volta lo hanno visto da Fazio o da Lundini quando ha fatto il pezzo sarcastico.

Ora, per quanto riguarda il bellissimo: parliamone. Che poi, come definire bellissimo? Piacevole, ascoltabile, gradevole, o addirittura irresistibile, esaltante, inebriante. Diciamo almeno: non faticoso. Meglio: che mi va di riascoltare più volte, perché ha qualcosa che mi attrae. Però non chiarisce bellissimo. Ma un po’ ci siamo capiti.

Quando nessuno se lo aspettava più, con la sconsolata fanbase di cui sopra - della quale faccio parte - oramai discretamente rassegnata, arriva la sorpresa pasquale di questo “Post mortem”, titolo che mi piace leggere come un heri dicebamus dopo il commiato di “Sparire”, come se nulla fosse successo: Contessa è simbolicamente morto e questo è il suo lascito, offerto per voi e per tutti in remissione dei peccati (fanti & santi mi perdonino).

L’ex-ragazzo, che si avvicina alla quarantina, chiaramente se ne infischia di piacere, altrimenti avrebbe rifatto uno qualsiasi dei tre dischi precedenti, rimescolando gli ingredienti in fogge diverse e nutrendo il suo popolo con qualcosa che assomigliasse un po’ ai Baustelle, un po’ al suo vecchio amico Edoardo, un po’ al suo nuovo amico Giorgio. Invece, butta tutto all’aria e se ne esce con tredici pezzi diversamente ascoltabili, andando a parare da qualche parte che dirvi non so, suonando molto contemporaneo e così adorabilmente spocchioso, del tipo: “Pensate quello che volete, c’è questo stasera”.

E giù a cercare similitudini, parallelismi, indizi nascosti sparsi ad arte, rimandi, riferimenti, ganci e agganci, colpi di genio che alimentino il futuro citazionismo dell’intellettuale fanbase già in estasi pre-coito. Poi, silenzio, tutti ammutoliti alla caccia di un senso a questa storia che un senso non ce l’ha: mmh, insomma, carino, sì, ma non tanto, n’est-ce pas? E giù a cercare alibi, a rivalutare, ai distinguo, ai sì però, a cogliere disperatamente la scintilla che manca ad accendere il falò. E giù a scrivere recensioni di getto, alcune comparse il giorno stesso dell’uscita, altre la sera, molte la mattina successiva, e via con gli elogi sperticati, le sottili analisi, i paroloni da bravi critici musicali, lo scavo psicologico sul buon Niccolò e l’esame accurato della sua intera vita, anche pre e peri mortem, la parabola, l’evoluzione, l’involuzione, il passo di lato.

Leggo: “E’ un disco sulla morte”. Ma va là, ma dove? Affatto, anzi: c’è vita, e molta. Vita storta, vita grigia, vita sgonfia, ma pur sempre vita. Leggo: “Temi di grande profondità”. Affatto, anzi: siamo anni luce dalle dotte elucubrazioni di “Aurora”, quello sì che trattava di temi alti e di massimi sistemi, qui c’è filosofia, ma ben più spicciola, cruda, carnale, storie di tutti i giorni, la vita in diretta. Di sicuro, il disco richiede impegno, vuole che si superi la soglia, come Umberto Eco che, con nonchalance, piazza lì la descrizione del portale dell’abbazia per fare door selection (questa è una doppia battuta non male).

E io chi sono, il figlio della serva? Eccomi, dunque.

Mi ci sono accostato con deferenza, con la consueta religiosa devozione che riservo ai miei piccoli o grandi miti privati. Al primo ascolto, non mi è piaciuto. Al quinto, neanche, ma avevo la netta sensazione che fosse un mio problema, e avevo ragione. Al decimo, ho capito che mi stava possedendo più di quanto non lo possedessi io. Dopo il quindicesimo, lo ascolto una volta al giorno, come fosse un farmaco prescritto dal dottore, e tutto quello che avevo scritto di non-buono sui social a ridosso dell’uscita, rispondendo ad altri utenti, l’ho cancellato di corsa, perché sbagliavo di tanto, quasi come il rigore di Vlahovic contro l’Empoli.

E’ un bel disco?

No, ma non posso fare a meno di riascoltarlo compulsivamente: anche questa volta, ha vinto lui.

Musicalmente, manca di immediatezza, fruibilità, disponibilità. Se ne fotte abbastanza di tutto: opinioni altrui, gradimento, godibilità. Cambia passo e registro, c’era da aspettarselo, conoscendolo: prevedibilità imprevedibile. In un terzo dei brani non c’è uno straccio di melodia, e dubito che non sia fatto apposta: ci sono pattern ritmici, algidi e impersonali, sui quali Niccolò recita la sua litania nell’abituale crooning, tra lo spento e lo scazzato, ritornelli praticamente zero. Il brano più armonioso è la title-track, che è uno strumentale sotto i due minuti.

Eppure, apre morbido e sornione con “Io”, mood da “Aurora”, una cosetta intima e confidenziale con singalong morbido morbido e testo introspettivo, personale, dolente. Poi, comincia la polvere. Arrivano, nell’ordine: il tono metallico standard di “Buco nero” (con alcuni versi memorabili, tra cui: non toccarti i genitali/neanche quando sei da solo/non parlare della morte/se c’è gente a cena), il passo pigro à la Beck di “Colpo di tosse”, il rallentamento catatonico di “Davos”, piatto e gelido mentre snocciola il testo forse più caustico del disco. “Colpevole”, due minuti e tredici secondi, azzecca un inciso paradisiaco sul quale il Nostro stende due strofette sbavate e afflitte, di quelle con la parte per il tutto, il messaggio universale camuffato eccetera, insomma una meraviglia; neanche il tempo di socchiudere gli occhi e ritrovare un’oncia di poesia, che “f.c.f.t.” riprende a martellare sulla stessa falsariga predominante, elettronica marziale e canto dritto, suoni bui e nessuna concessione al bello.

Cesura: lo strumentale, che separa prima e seconda parte come in “Glamour”, ma al di là della siepe, la musica non cambia. “Felice” – si fa per dire - procede cupa e percussiva, ricorda Battiato e cita Kafka e Mann per la gioia degli adepti, preludio alla staffilata aspra e monocorde – ancora - di “Nella parte del mondo in cui sono nato”, amara ed esplicita, con tematica sociale annessa, preludio al gran finale.

In pompa magna? In crescendo? In tesa escalation? Formalmente, neanche per idea. Nella sostanza, sì: “Madre” riecheggia Bugo, procede al ritmo di una canzonetta estiva, introduce – altro trionfo dei contrasti – un profondo tema esistenziale; “Carbone” si limita ad uccidere quel bel sentimento che è l’amore in una ventina di versi smozzicati, come niente fosse; “Buio” – appunto – completa l’opera di demolizione con impronosticabile piglio rock, c’è poco da scherzare/e poco tempo da vivere, ma reca in dote uno spiraglio: c’è poco amore nel mondo/c’è poca luce nel mondo.

A questo punto: come ne usciamo? Come lo chiudiamo ‘sto disco, Niccolò?

“Un’altra onda”, chitarrina come in spiaggia, ma senza la spensieratezza della spiaggia, quattro accordi maggiori, un filo di voce indolente a cantare di discese ardite e risalite, di paura e rinascita, quasi un’esortazione, forse un testamento molto prematuro, un messaggio in bottiglia, una capsula del tempo da lasciare a posteri generici o in carne ed ossa. Parte sorniona, si ingrossa appena in un anfratto simil-orchestrale, si allarga in una coda che è la cosa più dolce, romantica, fiduciosa, autentica di questo bellissimo regalo di tre quarti d’ora.

Dice: “E’ il migliore album di Contessa”.

Possibile. (Manuel Maverna)