NOTHINGHEADS  "The art of Sod"
   (2025 )

Ne ho ascoltata troppa di questa roba per non subirne il fascino, nonostante lo scorrere degli anni, nonostante tutto. Il richiamo delle antiche passioni è forte, non mente e non perdona, è atavico, viscerale. Parlando di musica, quello che un giorno hai amato lo ami ancora, torna la libidine prima o poi, rien à faire.

Allora: ci sono quattro tizi londinesi, si chiamano Nothingheads, fanno un gran baccano e saccheggiano a piene mani la cassaforte del post-punk. Li paragonano tutti ai PIL di Lydon & soci, e proprio torto non hanno. Resta da vedere a quali PIL: non certo quelli del post-punk ostico imbastardito col dub, forse a quelli di “First issue”, ma di certo è vero che il signor Rob Fairey canta con quella cattiveria acidella che rese celebre il buon John e che la chitarra del signor Ed Simpson ha il tono metallico standard tanto caro a Keith Levene. Quindi: il post-punk qui c’è eccome – il post-punk è ovunque, dovreste saperlo – ma gli manca tutto l’armamentario di bassi maligni e cantilene infide che attanagliava le tessiture dei PIL da “Metal box” in poi.

Cioè: il basso del signor Matt Holt ricama sì le sue trame ben pesanti (“Gouthead”), ma non insinua e non accarezza. Spinge, piuttosto: bastona, incalza, sostiene l’impalcatura, martella. E la batteria del signor Chanter Whitehurst fa gli straordinari in più di un’occasione, non limitandosi al compitino, ma ritagliandosi spazio, sfoggiando estro, mostrando personalità (“Down The Doomhole”).

Alla fine, cos’abbiamo? Ecco a voi le dieci tracce di “The Art of Sod”, debutto lungo dei ragazzacci su etichetta Sister 9 Recordings, trentaquattro minuti tesissimi, soffocanti, claustrofobici, un campionario di accordi sporchi, un tizio che latra sgolato e vagamente sdegnato, sempre con voce filtrata che sembra arrivare dall’altra parte del muro, intrecci della seconda chitarra – asperrima, indisciplinata - che storpia e strazia come meglio può, come peggio può. Insomma: una goduria che a tratti ricorda non poco i Jesus Lizard (la ferocia schizoide dell’opener “Private Pyle”), o certo brusco garage rock à la John Dwyer (l’assalto frontale di “Blindspot”), ma che lambisce anche i Cramps nel boogie sfigurato di “Digging” o i Fugazi nei violentissimi staccati di chitarra di “Cabaret”, scossa da furiose accelerazioni.

Sparsi ovunque - come cocci di bottiglia, chiodi arrugginiti o filo spinato - rimangono strati su strati di fischi e rumori, feedback e fuzz, distorsioni, clangori e scordature, stipati in una “Crumbs Of Pleasure” che sembra il tema di Peter Gunn col basso a caracollare sugli stop-and-go della batteria in una tempesta noisy, ed incastonati nelle profondità di “More Minutes Please”, chiusura in bilico tra rimembranze di Gang Of Four e suggestioni di Fontaines D.C., vecchio e nuovo a braccetto incuranti di tendenze varie e wind of change.

Come in un disco dei primi Helmet, non c’è un minimo accenno di melodia, solo dissonanze spinose e un canto lontano, dispettoso, malevolo, in linea con l’attitudine sincera e urgente di una band alla quale non pare importi molto di piacere, di passare in radio, di stare al passo coi tempi, di essere alla moda.

Benissimo. (Manuel Maverna)