ELLI DE MON  "Raìse"
   (2025 )

Quando il bambino era bambino, si fidava del blues: non gli avrebbe cagionato alcun male, anzi. Aveva ritmo, una struttura codificata, dava conforto, trasmetteva entusiasmo, tristezza, verve.

Quando il bambino era bambino, pensava che il folk fosse cosa pacifica. Innocua e confidenziale, docile e bucolica, inoffensiva. Blues e folk erano porti sicuri.

Ma il tempo trascorse, e con esso scivolarono via certezze ed innocenza. Non erano sempre rose e fiori, peace and love e buoni sentimenti. Blues & folk potevano avere un lato oscuro, sull’esile crinale che divide la quiete dall’abisso. Un abisso tutto interiore, psicologico, recondito. La voragine c’era, eccome, ed il cuore di tenebra era lì, pronto ad una sua peculiare accoglienza, buia ed infida, un demone in agguato.

Blues & folk coi loro meandri caliginosi, un sabba di ombre lunghe da mettere i brividi. Perché questa musica può essere piuma, ma può essere anche David Eugene Edwards e Nick Cave, Handsome Family e Sacri Cuori, Hugo Race e Mark Lanegan, Tom Waits e Patrick Kadyk.

Blues & folk possono essere concilianti, rilassanti, amorevoli, esaltanti, ma talora mutano e turbano, diventando come Billy Redden che suona il banjo nella memorabile scena di “Un tranquillo weekend di paura”. Fascino e timore. Attrazione e spavento.

Blues & folk possono essere Elli De Mon.

Lei, Elisa De Munari, originaria di Santorso, cinquemila anime in provincia di Vicenza, prende tre quarti di blues e un quarto di folk, li irrora di sparse suggestioni psych d’oriente, poi mescola, strapazza, stravolge, maltratta, sfigura perfino. Ne fa altro.

Dal self-titled di esordio (2014) fino a “Pagan blues” (2023), passando per le scosse di assestamento di “II” (2015) e “Songs of mercy and desire” (2018), la sua è stata una lenta, impercettibile escalation, affinamento in purezza di una scrittura ostinatamente coniugata in minore, scavo assiduo nei più riposti recessi di un labirinto a luci spente, verbo inasprito da un’espressività sì forte ma mai sovraesposta, da ritmo tribale, da trame intriganti, da accordi secchi e tesi a segnare il perimetro di brani concisi, diretti, minacciosi, inquieti.

Muovendo dal blues minimale, ruvido ed essenziale, tripudio di bottleneck e DIY realizzato in solitaria, Elli ha viaggiato caparbia per la sua selva intricata fino alle undici tracce di “Raìse”, lavoro che vede il determinante ingresso nel progetto di Marco Degli Esposti (chitarra, già La Notte Delle Streghe e Monoscopes) e Francesco Sicchieri (batteria/percussioni, anch’egli nei Monoscopes) a dare corpo e forma ad una vera e propria band.

Non contando ep, split e divagazioni a latere, “Raìse” è il quinto album lungo in un’ultradecennale carriera, sempre caratterizzata dalla rilettura schietta e personale – brusca, cruda, feroce a volte - del canone; pubblicato per l’indipendente italiana Rivertale Productions, ispirato dalla leggenda popolare di Sant’Orso e ideato come concept sui generis, l’album conserva intatta un’aura sottilmente malevola, forgiando incubi assortiti (la cadenza sferragliante e ossessiva di “Sinner”) e plasmando inattese morbidezze (“Sumàn”) senza più il filtro dell’inglese, usato in tutti i precedenti lavori e qui abbandonato per il dialetto vicentino.

Cambia la lingua, ma l’antico afflato - vento irrequieto che agita le fronde e fa sbattere le porte – rimane ad aleggiare tra queste composizioni vigorosamente plumbee: spiriti sciolti avvolgono in un’atmosfera profondamente haunting una narrazione fosca che impasta mito e santità, tra inediti incisivi e riproposizione di testi tradizionali. In un ritorno a quelle radici omaggiate nel titolo, Elli regredisce ad un primordiale stato di natura che l’uso del dialetto rende ancor più intimo e viscerale, primitivo ed ancestrale, aggiungendo un che di atavico e spettrale a quaranta minuti densi, vibranti, pungenti. Ondeggia insinuante nella title-track, scivola sinuosa nella breve aria campestre di “Oseleto”, si destreggia con nonchalance nel battito incalzante di “Orso”, nel fuzz incattivito di “Foresto”, nel ruggente riff à la White Stripes di “Babastrii” col suo crooning espressionista, offre una interpretazione di rara, brutale intensità nel rallentamento velvetiano di “El me moro”, monolitico compendio di asfissiante disperazione che recupera dalle pieghe del tempo un tema – la violenza domestica - di bruciante attualità.

La coda è soffice, folk in punta di strumenti, tre melodie soffuse solcate dalle striature sottili di contrabbasso, sitar e dilruba, suoni che rimandano memorie sepolte strappate all’oblio; è un commiato gentile che lascia ardere la brace fino all’ultima scintilla, conservando solo l’eco del magma distorto e cupo che lo ha preceduto, mentre restituisce la vivida e brillante fotografia di un’artista senza vincoli e costrizioni, sincera e ispirata, libera come non mai. (Manuel Maverna)