DAVIDE DeaR RICCIO  "Gli altri"
   (2025 )

Abbiamo imparato a conoscere la prolificità di Davide Riccio, in arte DeaR. L'educatore professionale e giornalista classe '66, musicista dagli anni '80, da un po' di tempo ha deciso di aprire i cassetti pieni di sue canzoni, accumulate in tanti anni e che non hanno trovato una strada editoriale che le valorizzasse. E siccome sono tante, non si risparmia.

L'anno scorso ad esempio ha pubblicato “DeaR Tapes”, un triplo cd contenente sessanta canzoni provenienti direttamente dagli anni Ottanta. Questa volta, per Force Music, pubblica un altro triplo cd, “Gli Altri”, che si focalizza sulle canzoni degli anni Novanta, e ha fatto un po' di selezione. Non più sessanta canzoni... solo cinquantotto!

Altra scelta che rimane invariata rispetto al lavoro precedente è quella di lasciare tutte le registrazioni così come sono, in versione demo, coi suoni midi (a volte sono proprio quelli da pianobar, con le basi su floppy-disk), per farci ascoltare ogni “trito detrito” (cit. “La strada è lunga”) delle idee in versione grezza. Non so se ci sia dietro una sorta di risentimento (come a dire: “Sentite cosa avete snobbato, maledetti!”), o se come in precedenza avevo già scritto, si ricerchi l'effetto “macchina del tempo”. Come “DeaR Tapes” era una testimonianza direttamente da quel decennio considerato sfavillante, così qui possiamo ascoltare l'underground vero nel decennio del “grunge” e del “lo-fi” di posa, che però era altrettanto iperprodotto e sempre più piegato alle logiche della loudness war.

Entrando nel merito di queste canzoni, possiamo trovare ancora una volta la fantasia di scrittura di DeaR nei testi, tra calembour (“Zygoun zigan”), riflessioni acute, immagini evocate ora con ironia, ora con visionarietà, come quella rana che mangia una lucciola, e per un po' si illumina anche lei. La voce spesso è stata registrata due volte, incidendo l'ottava bassa sulla melodia principale, restituendoci un timbro vellutato come quello di David Sylvian.

Una canzone che mi resta impressa in particolare comunica per colori: “Vedo marrone”. DeaR si pone in maniera equidistante tra ottimisti e pessimisti: “Chi vede tutto roseo ed anche un fachiro, sta sul letto di rose e non sta mai sulle spine. Chi vede tutto nero è un pessimista ed è un pessimo scacchista, non distingue il bianco dal nero (…) Quanto a me, vedo marrone, vedo fango marcio e troppe merde”. In “Bacio di Cyarno” compare il mantra buddista “Nam Myoho Renge Kyo”.

Accanto ai suoni sintetici delle tastiere, compaiono alcuni suoni etnici sudamericani. Al contrario alcuni brani sono più minimali, come l'apertura “L'orologio da Rote” che è cantato a cappella, sovraincidendo le voci, o “Canzona a un flautin”, strumentale simil medievale che apre il secondo disco, che accoglie brani più punk come “Ipse Dixit (Ah! Ah! Ah! Ah!)”, con una chitarra distorta, e “Cyber Punk Pogo”. Anche il terzo album è aperto da un brano “vintage”, un pezzo in italiano antico: “Quest'è Colui che il mondo chiama Amore”.

Titolo sibillino: “2025”. Vediamo cosa DeaR pensava nel 1996 dell'anno in corso. “Fra cieli di pixels sempre più blu. Nel 2025 meraviglia mondiale di essere ancora vivi senza stare a sognare le evidenze invisibili, per tutti i fuochi taciuti (…) sfingi su Marte (…) di chi è la scienza?”. Qualche domanda forse torna abbastanza centrata, al netto del “pasto dei Grigi”. Non ci sono parole ma solo sillabe canticchiate in “Sarajevo”, canzone tutto sommato scritta in maniera divertita, nominando una città che in quel momento era distrutta, e qualcun altro cantava di “cupe vampe”. Il pezzo più suggestivo è la dolceamara “Il sogno di un uomo ridicolo”, prima del valzer “Vodka” che si trasforma in marcia balcanica.

DeaR prende ispirazione in giro per l'Asia, come testimoniano i titoli “Gamelan” e “Taj Mahal”, anche se poi nel testo in realtà i riferimenti sono solo d'ambientazione. In “Samskara” fa la comparsa il sitar, e la canzone è cantata probabilmente in indiano. C'è anche spazio per il francese, in “Il a du se passer quelque chose”. Per solo pianoforte “Satiesque (musiche per la segreteria telefonica)”, che però è in tonalità minore e vagamente inquietante: se al telefono mi accogliesse questa musica mi spaventerei!

Molte musiche sono abbozzate, sono canzoni più potenziali che compiute. Stranamente “Senza titolo per ora”, nonostante il titolo, sembra una delle più complete. Il triplo disco si chiude con la “Sonata per organo”, che è effettivamente suonata allo strumento a canne. Una conclusione targata 1999 che forse lascia una firma spirituale a questo nuovo rilascio di idee sparse. Questi tripli dischi sono come specchi moltiplicati per DeaR, che ci mostra tutte le sue sfaccettature, lasciandoci immaginare come alcune di queste canzoni potrebbero essere riprese in mano e riregistrate professionalmente. Ma per ora va bene così, in questa veste “necessariamente nostalgica”. (Gilberto Ongaro)