COLONNELLI "Gli implacabili"
(2025 )
Quando ascolto non-in-cuffia dischi che devo recensire, mia moglie passa di lì e mi prende in giro: “Io scriverei solo: è bello, oppure è brutto”. Poi passa nostra figlia, che sibillina commenta: “Bella robetta, chissà cosa avrai da scriverci”. E se ne va.
Ecco, per questa volta seguo mia moglie e vi dico: questo disco è bellissimo.
E lo è nonostante sia ostico, impervio, duro come il ferro, cattivo come un demone.
E’ metal, ma non metal qualsiasi: è il metal dei Colonnelli, disponibile al confronto, ricco di sfumature, cantato in italiano.
Ai Colonnelli, trio del grossetano attivo da un decennio, io voglio bene, perché hanno saputo risvegliare in me – parlo a titolo personale, sia chiaro - qualcosa di sepolto nel tempo, una passione rimasta a covare sotto la cenere, atavica, primitiva, primordiale, un amore latente, mai sopito, per un genere sì esaltante, ma comunque spinoso.
Di loro ho avuto il piacere di scrivere su queste pagine ad ogni nuova uscita, a partire da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, folgorante debutto del 2016 che mi aprì gli occhi sulla via di Damasco al suono arrembante di un metal che era molto più di semplice metal. Pagava sì più di qualche dazio ai Metallica, ma andava bene, bene così: c’era da innamorarsene.
Hanno una caratteristica che li rende adorabili: l’abilità di cercare – e trovare, immancabilmente – la melodia in quel tempestoso inferno di distorsioni e di ritmo lanciato a duemila all’ora, tra grida belluine e parole che sanno di morte, sangue & affini. E un altro pregio ancora, non trascurabile: offrono il metal anche a chi non lo mastica, restando incrollabilmente fedeli alla linea, maestri di coerenza e penne ispirate.
Quarto album di una carriera ancora giovane e sempre encomiabile, “Gli implacabili” condensa in nove pezzi e ventotto minuti densi come lava il consueto campionario di ritornelli sgolati e prodigiosi, ficcanti, centrati, memorabili: ogni idea diventa anthem, tra accelerazioni mortifere, riff come mitragliate, drumming impazzito ed una spinta incessante che inietta la sua furia cieca in brani concisi, tesi, impetuosi.
Aperto dalla bordata de “La tempesta perfetta”, con chorus imperdibile ed inattesa coda per feedback ed arpeggio, segnato dal passo nervoso de “L’uomo in fondo al pozzo”, scosso dall’urgente frenesia di “Sparare a vista”, l’album procede compatto, diretto, mai dispersivo: va dritto al punto, non si balocca in virtuosismi o arzigogoli, colpisce dove, come, quando vuole. E’ rabbioso, cova astio e gronda risentimento (“Il cielo sopra Grosseto”, nel solco della vecchia “La marcia dei Colonnelli”), scatta psicotico nell’accoppiata letale di “Dea” (cover degli Afterhours) e “La china discendente”, tre minuti in tutto, ma micidiali.
E poi: pennellano la strumentale “Alamogordo”, graffiante, sbilenca, palpitante, a suo modo poetica, con chitarra pacata subito inghiottita da un sabba di distorsioni e da accenti marziali della batteria.
E ancora: propongono un’accessibile “Scenderemo nel gorgo, Pt. 2” da poter cantare sotto la doccia, sebbene sia sventrata da tutto il frastuono possibile ed arricchita, verso la metà, da una bella variazione armonica e da un pregevole solo di chitarra, breve e pulito.
Ed infine: chiudono con “Divoramento”, titolo minaccioso per una perla che va a parare altrove, aprendo la via a chissà quali sviluppi futuri, forse soltanto auspicio di luce oltre la siepe. Non è un inno, un’invettiva, uno sfogo: è - semplicemente - una canzone, nemmeno esattamente metal. Un po’ – capitemi – come fosse il versante più metal dei Verdena, con parole di redenzione inedite in un ritornello puramente bello, che persino cita Faber en passant mentre cerca di guardare un po’ più in là.
Questi erano e questi sono i Colonnelli: una band fruibile, in fondo, ma tagliente come un rasoio, buia come la tenebra più fitta, intransigente e cocciuta, l’anello mancante tra ciò che ascoltate e il metal che vorreste.
Gliene va dato merito. (Manuel Maverna)