ANDREA GIORDANO  "Àlea"
   (2024 )

C'era una volta l'elettronica che cercava di imitare i suoni naturali. Dal vecchio protocollo MIDI e i primi glaciali campionamenti si è fatta tanta strada, fino ad arrivare ai VST che ormai a volte sono indistinguibili dagli strumenti veri. Se non ho frainteso un documentario, una volta, Hans Zimmer ha provato a fare il percorso inverso. Dato che chi usa le orchestre digitali, spesso cade in roboanti cliché (e Zimmer stesso ha contribuito a crearne uno, il famigerato BRAAAM), lui ha provato a far suonare all'orchestra reale questi cliché, chiudendo il cerchio. Gli strumenti veri che imitano la macchina.

Per certi versi, la ricerca di Andrea Silvia Giordano sembra incrociare una direzione simile (ma non uguale). La compositrice italiana di stanza a Oslo ha scritto musiche per organetto, flauto, sassofono soprano, tromba, violoncello, fisarmonica, chitarra, arpa, organo, contrabbasso, batteria e percussioni. Eppure, in alcuni momenti di “Àlea”, album uscito per Sofa Records, sembra di udire un flusso sintetico, di quelli generati con software. E invece a suonare sono gli strumenti acustici elencati qui sopra, per i quali Giordano ha composto lunghe tessiture che confondono i timbri, alla ricerca di colori nuovi. Sono pitture sonore, affreschi acustici.

“Àlea” è suddivisa in quattro movimenti, definiti “Stansia”, un gioco di parole che forse i norvegesi non colgono senza spiegazione, che unisce “stanza” e “ansia”. Si formano infatti delle tensioni nelle composizioni, che vengono di volta in volta risolte, in maniera non armonica: non ci sono progressioni, tonalità maggiori o minori, ma pattern melodici che si ripetono, passandosi da strumento a strumento, contrappunti, e cluster, specie degli strumenti quali organo e organetto, che realizzano bordoni dissonanti (questo si sente soprattutto nel primo capitolo di “Stansia II” e nel primo di “Stansia III”, altamente ipnotico).

Si tratta principalmente di musica strumentale, ma ci sono due momenti dove Andrea Giordano canta, segnalati dai sottotitoli “ciòche” e “vel”. Sono termini dialettali, perché lei canta nel suo dialetto d'origine, il cuneese (non saprei dirvi quale di preciso, perché come ogni dialetto che si rispetti ha numerose varianti). La voce è sforzata, soprattutto in “vel”, nel tentativo di esprimere una “sensazione etnica”, con quei colpi di glottide e le note “indietro” (cioè in gola anziché spostate “avanti” tramite il diaframma). Insomma vuole fare rustico, il che si scontra con la musica ricercata, fatta di dissonanze e altre scelte tipicamente “eurocolte”.

D'altronde queste scelte si sono fatte spesso in passato, in più occasioni i compositori hanno cercato ispirazioni nella musica folk, a volte spinti anche da un'ideologia che voleva unire “alto e basso” (un discorso un po' novecentesco). In questo caso invece, la spinta è personale e affettiva: Andrea Giordano vuole inserire nella composizione sperimentale, che di per sé è neutrale e slegata dalla territorialità, un elemento geografico identificativo, una firma piemontese in questa ricerca algida, che son curioso di sapere come interpreteranno i norvegesi lassù. (Gilberto Ongaro)