ALESSANDRO SIPOLO  "D'io matria vaniglia"
   (2024 )

Ricordo bene di avere amato in vita mia i cantautori, quelli tradizionali, fossero italiani o stranieri, De André o Dylan: da giovane, negli anni Ottanta, tra i coetanei ero una mosca bianca. Ho continuato, ma con entusiasmo decrescente. Oggi, invece, che avrei l’età giusta – quella che invita alla riflessione più matura e profonda sulle cose, sul senso della vita, eccetera – li ascolto sempre meno: cioè, li ho comprati i due album tardivi del Guccio, per dire, e mi sono piaciuti. Però.

Però passo più tempo con Fontaines D.C. o Bodega che con Niccolò Fabi o Lucio Dalla: forse ha a che fare col rimanere aggrappati al futuro semplice anziché a quel (bel) passato prossimo. Però.

Però a volte ti imbatti in dischi come questo delizioso “D’io Matria Vaniglia”, etichetta LaPop/Freecom, nuova fatica – la quarta in carriera – di Alessandro Sipolo, artista bresciano classe ’86, uno non di primo pelo, con trascorsi affatto trascurabili e frequentazioni rilevanti, un cantautore sì, di quelli che percepisci nel peso delle parole, nei contenuti, nell’urgenza espressiva che li anima, ma avulso dagli stereotipi del mestiere, anomalo, disallineato. Non verboso, mai tedioso, non eccessivamente innamorato né dell’eco della propria voce né dell’intelligenza o dell’acume da altri ostentati; conciso, dritto al punto, intimo nel suo crooning raccolto giocato su un registro vocale basso, confidenziale, morbido ma incisivo, caldo ma tagliente.

Brani provvidamente essenziali, affidati ad arrangiamenti delicati e soffusi, flirtano sommessi con atmosfere latineggianti, bacchettando usi e costumi in testi ficcanti e amari, nel solco di un’elegante - ma inequivocabile - denuncia sociopolitica; è una leggerezza solo simulata, un efficace espediente per cantare di tanto mal comune e ben poco gaudio (confinato alla sfuggente tenerezza di “Matria”) sotto le mentite spoglie di una piacevolezza di facciata, quasi un trucco di scena che cela sia il pensiero critico sia il suo corollario di doveroso risentimento.

Lieve nella forma, plumbeo nella sostanza, racchiuso tra l’afflato western di “Vaniglia” in apertura e la babele neorealista di “D’io” in coda, l’album alterna il reggae incattivito di “Signor padrone”, la toccante mestizia mariachi di “Le nostre miserie”, l’up-tempo folk di “Petra”, il carezzevole, insistito arpeggio bucolico di “Polansky”, la piccata invettiva - aspra ed esplicita - della cumbia antigovernativa di “Signorina cuorenero”, la fisarmonica sorniona à la Van De Sfroos di un’avvolgente “Sandra e Visone”.

Lo fa con autorevole nonchalance, senza perdere focus né credibilità, definendo uno stile personale e peculiare, vero atout di un lavoro più cupo e pessimista di quanto le apparenze suggeriscano, opera intrigante che rivolge - con garbo ingannevole - uno sguardo disincantato alle umane bassezze, tra sprazzi di poesia e pugnalate all’establishment. (Manuel Maverna)