CATHERINE GRAINDORGE  "Songs for the dead"
   (2024 )

E’ estate, e - potendo - semel in anno licet andare in vacanza. Leggerezza über alles, sta’ senza pensier, relax, just do it.

C’è un tempo per lavorare e un tempo per riposare, ma non illudetevi: non ancora in eterno, ché dopo un paio di settimane per rifiatare a cuor leggero, tocca tornare a guadagnarsi da vivere. A fungere da corredo e perfetta colonna sonora, di solito molta baby dance ed altrettanto pop scipito buono per la pubblicità del gelato, brutta musica fatta solo con la batteria, alternata a quella leggerissima che ti salva sull’orlo del precipizio, cantando lililli o lalalla.

E’ pertanto con autentica gioia nera nel cuore che andiamo a sbattere in prima pagina, per l’intero torrido agosto che verrà, un amabile mostro di tenebra e riflessione, manifesto di sentimentalismo decadente che sa di persiche mézze e rose passe, ma che affascina con ambigua malia. Leggasi: l’antitesi esatta di tutto quanto sopra elencato in ordine sparso, perché andranno anche in vacanza i corpi nell’everyday world of bodies, ma resta da nutrire lo spirito, che anela a pascersi di ciò che in profondità lo inebria.

A ricordare urbi et orbi l’infinità vanita del tutto e la relativa prossimità della data di scadenza, è Catherine Graindorge, compositrice, violinista e violista belga dagli importanti trascorsi, dalle illustri collaborazioni (Iggy Pop, Nick Cave, Hugo Race) e dalla rara sensibilità. E’andata così: ad un certo punto della storia, ha tra le mani un libro di Allen Ginsberg, dal quale intende trarre una qualche ispirazione che dirvi non so, spremendo il succo che in quel momento desidera: prova fascinazione profonda per un breve componimento dal titolo “A Dream Record”, nel quale Ginsberg racconta di un sogno in cui si trovava a dialogare con Joan, la defunta moglie di William Burroughs, circa vita & morte & molto di più.

Per Catherine, questa è la chiave di volta, lo spunto che cercava, la scintilla da cui scaturisce “Songs for the Dead”, otto brani plumbei e toccanti, emozionali e vibranti, odi che sposano atmosfere oscure di tanta bella post-wave revisited ed un gusto (melo)drammatico di discendenza (neo)classica. Dirama le convocazioni, chiamando a sé Simon Huw Jones, tenebroso vocalist degli And Also The Trees, Pascal Humbert, bassista per 16 Horsepower, Wovenhand e Lilium, e Simon Ho, pianista e compositore svizzero di stanza a Bruxelles. Scrive le musiche, le registra e le invia a Jones, che gliele restituisce con idee per i testi. Affare fatto: vanno in studio ed in undici giorni “Songs for the Dead”, su etichetta Glitterbeat/Tak:Til, è pronto, missaggio incluso.

Quarantuno minuti agitati/accarezzati da un afflato complessivamente romantico – non tetro - sui quali aleggiano spettri, memorie, quesiti profondi ed una sottile angoscia esistenziale, mentre il crooning attoriale di Jones risuona - monito profetico, quasi ieratico - sul cordoglio afflitto degli archi. Ogni episodio contiene riferimenti alla poesia di Ginsberg, della quale richiama e ricrea fino ai più celati anfratti, fosse anche solo per suggestione: il testo completo di “A Dream Record”, declamato da Jones, forma l’ossatura di “This Is A Dream”, occupata per larga parte dei suoi sette minuti e mezzo da una lunga coda - inquieta e rapita, cupa ed incombente - per viola, disturbi e rumori di fondo.

Non paga, Nostra Signora delle Fiandre interpreta in proprio il palpitante intreccio in minore di “Joan”, ed impasta in sorprendente amalgama i versi di Allen col sempiterno mito di Orfeo ed Euridice, ai quali assegna ben due brani (divina “Eurydice” in apertura), a proposito di liason tra viventi e cari estinti, affetti smarriti ritrovati nella bolla freudiana dei sogni, recherche di quello che non c’è. Strumentali sfuggenti e dolenti (la maestosa aria à la Loreena McKennitt di “Where the Buzzards Fly”; “Small Trees” e “The Unvisited Garden”, entrambe ispirate dai due versi finali della poesia) cedono il passo a recitativi intensi su strutture spesso avulse dalla forma-canzone as we know it, con alcune preziose eccezioni: su tutte, l’insistito controtempo dell’estatica “Orpheus’ Head”, soave armonia tra Scott Walker, Marc Almond e Matt Howden, e la conclusiva “Time is Broken”, nata da una frase di piano di Simon Ho, attorno alla quale cresce, avviluppato come edera, un duetto paradisiaco tra Graindorge e Simon. There is no more to say, ripete Catherine con un filo di voce: un mantra o un’invocazione, una certezza o un dubbio che vuole essere fugato.

It’s the end, le ultime parole famose lasciate a risuonare a mezzaria come una carezza o un enigma senza soluzione. Presenze invisibili aleggiano in penombra, captate da una penna gentile ed immaginifica, visionaria ed onirica, anima turbata che si balocca tra fantasia e mistero, speranza e desiderio, cercando di riempire i vuoti nascosti nelle pieghe invisibili tra un verso e l’altro, tra cielo e terra, tra sognante e sognato. (Manuel Maverna)