UNCLE MUFF  "Adrift"
   (2024 )

E’ una faccenda di gusti personali, ça va sans dire: questo disco incontra tutti i miei, a posto così. Almeno quattro i motivi, che elenco in ordine sparso.

In primis: ha ritmo, ché le cose troppo lente dopo un po’ annoiano.

Poi: è triste, e va sempre bene, anche se sei di buon umore. Anzi, secondo me se sei di buon umore e ascolti una canzone triste, rimani comunque di buon umore ed apprezzi ancora di più il fatto di esserlo. Siete particolarmente sensibili all’abbondanza di accordi minori? Sappiate che la band ne abusa, impiegandone in quantità tali da rallegrare gli animi più disponibili a questa peculiare seduzione.

Inoltre: è cantato in modo scopertamente espressionista. Non nel senso che brutalizzi le regole basilari del canto: semplicemente, non si limita al compitino, e non necessariamente asseconda la melodia come da copione, niente affatto. Rimane nei ranghi quanto basta per non perdere credibilità, ma interpreta, eccome: ascoltare – prego – la strabordante intensità stipata nei quattro minuti e ventotto secondi dell’opener “I, Like You”, con il suo corollario di rumori, contrappunti vari, voci di sottofondo e quel timpano incalzante sulla strofa, spalancata su un chorus ammaliante.

Infine: è discretamente imprevedibile nella sua insolita amalgama tra storta rilettura dell’immarcescibile verbo blues – un blues nascosto, contorto, intimamente scarno, ancestrale – ed una curiosa, sporadica, ben celata inclinazione ad inglobare elementi eterogenei in un contesto che suggerisce ben altro.

Il tutto si rinviene in purezza nelle nove tracce di “Adrift”, pubblicato per Overdub Recordings, quarto capitolo nel percorso defilato, ben protetto alla vista e lontano dalla pazza folla, degli Uncle Muff, band trevigiana – oggi un trio – attiva dai primi anni Dieci con ben precise idee in testa. Sparse ovunque come briciole di Pollicino, vestigia inconfutabili ed inconfondibili di Cave & Waits, Hugo Race & Sacri Cuori, indizi disseminati ad arte lungo un labirinto che si snoda tra i meandri di un linguaggio efficace, incisivo ed incupito, ricorrendo a trucchi di scena e magheggi assortiti, senza schierarsi scopertamente né cavalcare questo o quel filone.

La trama dello show cattura l’urgenza di una scrittura variegata e fantasiosa, sofferta e dolente, capace di ondeggiare tra il passo esitante di “Your Voice” – quasi i Pixies – e l’aria cangiante al rallentatore di “Close To Be A Part”, intro per basso, voce e tamburello, con sviluppo degno dei National; tra la dilatazione esangue di “Dream” e l’alt-folk più allineato di “Living In A Forest”; tra le suggestioni balcaniche di un’inquieta, vagamente spettrale “And Eventually Die”, la cadenza mortifera del basso di “Old Blue Back”, ed i ricami art rock di una prodigiosa “Still In Time”, lasciata andare a briglia sciolta in odore di Black Heart Procession.

In coda, rimane a stagliarsi su questi trentaquattro minuti di obliqua creatività la lucida follia di “House In The Water”, chiusura indefinibile, a suo modo geniale, partitura accattivante e mossa che suggella in gloria un album estroso, compostamente stravagante, guscio di noce che veleggia con sorprendente scioltezza verso chissà quali lidi ancora inesplorati. (Manuel Maverna)