FINAL  "What we don't see"
   (2024 )

Era dai tempi di ''Metal Machine Music'' di Lou Reed, bistrattato e sottovalutato lavoro di mezzo secolo fa (che molti riportarono in negozio protestando per la copia presumendola fallata), che non mi divertivo a meditare sulla necessità di tappeti sonori così.

Assolutamente necessari, come mappe oniriche e colonne sonore di film girati solo nella testa (o nel mondo alla Matrix che viviamo, scegliete voi). Del tutto personali, come un disco del compianto (sono già 50 anni...) Nick Drake, eppure universali.

Cosmi creati in laboratorio, questi pochi intensi brani, certo, ma sulla base di una solida anzi rocciosa innocenza: è il canto del vuoto, della nebbia, dell'inconsistenza, della paura, dell'incertezza, della solitudine, che questi suoni celebrano e propagano come un rito laico di straordinaria bellezza, emancipando chi li ascolta da ogni necessità di classificazione, definizione, da ogni bisogno retoricamente "culturale".

Questo di ''What we don't see'' (uscito per la Room40 Records) è puro, anzi purissimo suono, distillato di una meditazione interstellare che potete produrre anche voi o far produrre al vostro gatto se volete e se ci riuscite, ed è anche questo il bello, ma così registrato, con assoluta indipendenza da giudizi e timori (nec spe nec metu era il motto di sua maestà il sovrano Francesco I), è tutt'altra cosa.

Il tutto si deve alla voglia di sperimentare del grande Justin Broadrick, leader dei Godflesh, ed al suo progetto parallelo Final, che esiste da quasi quarant'anni ed a cui va davvero riconosciuto un coraggio leonino. (Lorenzo Morandotti)