SABRINA FURLAN "7"
(2024 )
Come antidoto alla convulsa concitazione del vivere e rimedio alle molte nevrosi che minacciano da ogni parte l’agognata quiete dell’uomo timorato, questo disco è perfetto.
Assolve splendidamente alla sua funzione, fedele a ciò che si propone di ottenere: ventisei minuti di musica strumentale, docile sì, ma ben viva sotto il manto di elettronica che la riveste, allettante nel suo incedere morbido, padrona del suggestivo fluire che la spinge delicatamente verso la pacificazione promessa in dono.
Sette tracce eleganti e suadenti, gentili e tenui come un acquerello, formano l’ossatura di “7”, nuovo lavoro di Sabrina Furlan, polistrumentista toscana dai variegati trascorsi e dai non pochi mutamenti stilistici, disseminati nell’arco di una carriera sbocciata tardivamente e divisa tra le molte sfaccettature del pop.
Dopo tentativi – anche fruttuosi – in quell’ambito, Sabrina ha varato un percorso più sbilanciato verso un’elettronica docile, affatto cervellotica, fruibile e comprensibile, ossia l’esatto linguaggio su cui “7” è edificato; note in cascata, sgranate e distillate, definiscono trame di pregevole essenzialità, ricamano tessiture esili ma efficaci, pennellano melodie che sono - al contempo - intense e sfuggenti.
L’atout dell’album è la verve immaginifica che lo pervade: ideato come un concept muto, incentrato sul tema, anche metaforico, del viaggio, evoca panorami e paesaggi, invita a godere della natura e delle piccole cose, suggerisce dettagli, crea scenari, producendo un effetto straniante, ma incredibilmente foriero della calma perduta. Musicalmente, oscilla tra l’Alan Parsons di “I Robot” (“Maestrale”) negli episodi più concilianti e l’ultima Pauline Anna Strom (“Intro”) nelle divagazioni più astratte, con qualche sfumatura di Pat Metheny sullo sfondo ed un gusto innato per armonie non necessariamente lineari: piccole increspature agitano “Fenicotteri Rosa”, una lieve melanconia bucolica pervade “Promenade”, mossa da un battito insinuante, un mood sospeso e notturno rende “Levante” sottilmente inquieta, poco prima della dolce chiusura trasognata di “Riflessi di Luce”, epilogo soffice come ovatta, congedo diafano e rarefatto che scorre placido fin sottopelle, regalando benefica distensione.
Io l’ho ascoltato sei volte di fila, e il pomeriggio mi è volato, inconsistente e leggero come una nuvola.
Provate, ne vale la pena. (Manuel Maverna)