PETER GABRIEL "i/o"
(2023 )
Ok. Mi pento e mi dolgo di aver proposto al direttore di Music Map, di lasciarmi recensire “i/o” di Peter Gabriel. Mi rendo conto adesso della responsabilità, e della difficoltà di essere oggettivo, dato che sono praticamente un suo fanboy. Inoltre, vedo che in altri siti, stanno scrivendo cose un po' diverse dalle mie; alcuni dicono le stesse che direi io, ma... con accezione opposta! Cioè, se io dico: “Questo muro è verde, che bello!”, loro dicono: “Che brutto, questo muro è verde!”. Ciò che per me è un valore, per altri è un disvalore, e viceversa.
Chissà se tutto questo se lo aspettava, il caro Arcangelo Gabriel(e), fin dall'idea dualistica di presentare un album in due cd, ma con le stesse canzoni, da ascoltare due volte, con mix diversi. Il “Bright-Side” mix, cioè “mix chiaro”, e il “Dark-Side” mix, mix scuro. Su questo non aggiungo molto a ciò che Andrea Liuzza, fondatore dell'etichetta Beautiful Losers, ha già egregiamente descritto: https://www.youtube.com/watch?v=YEAl2g-_Nhk.
In breve: il mix chiaro è più pop e radiofonico, il mix scuro più sperimentale e alternativo. Le stesse canzoni hanno due vesti. Ciò fa capire, anche ai meno tecnici del suono (come me, che guardo più alla composizione), che lo stesso oggetto musicale può dare impressioni diverse. Yin e yang? Luna piena e luna nuova, con le quali PG ha giocato per tutto questo 2023?
È pur vero che, per valutare la validità di una musica, bisognerebbe parlare solo di musica, e ignorare il resto: il packaging, il marketing, i vecchi videoclip di MTV, gli abiti dal vivo, e a volte perfino il significato dei testi. Lo so, tutto questo non dovrebbe influire, nel valutare la musica. Ma come si fa, di fronte a un artista che ha fatto dell'unione delle arti la sua cifra, uno che nei Genesis indossava costumi che rappresentavano i personaggi dei testi, che ha poi realizzato videoclip come quello di “Sledgehammer”, che crea connessione tra musica e arti visive nel libretto del CD di “i/o”, ma che già aveva fatto in “Up”, in bianco e nero? La sua espressione è crossmediale, da sempre.
Chi ha scritto di “africanate”, riferendosi a quei cliché etnici, presenti in alcune canzoni di questo “i/o”, si ricorda che di quei cliché, è stato pioniere lo stesso Peter Gabriel, quando ancora non esisteva il concetto di “world music”? Cioè, è “roba sua”! È come chiedere a Gilmour di smetterla di fare quegli assoli “hawaiani” perché ormai li fanno tutti! Ma se è lui il portabandiera?!
La verità, è che Peter Gabriel ci ha viziati. La sua voglia di sperimentare sempre, di fare un passo avanti ad ogni disco, ha generato un'aspettativa di sorpresa, che ogni volta va soddisfatta. Ma, raggiunta la formula perfetta, con gli amici di sempre (Levin, Katché, Rhodes), cos'altro dovrebbe fare? Questo album in doppia veste, composto di 12 canzoni magniloquenti, presenta tutti gli elementi che chi segue Gabriel riconoscerà: atmosfere dilatate, cura maniacale del suono, groove, e soprattutto la voce di Peter come ci piace. Quando si spezza nei brani soffici, quando fa i suoi acuti da guru, quando canta minaccioso le note gravi da profeta. Insomma, tutta la sua umanità.
Per quanto riguarda la ricerca compositiva, c'è un solo brano che trova soluzioni armoniche insolite: “And still”, con l'orchestra che spedisce il brano nell'Olimpo. Le altre canzoni fanno giri abbastanza consueti; l'attenzione è tutta nella disposizione degli elementi sonori, per fare il gioco dei due mix. In “Up” invece, c'erano almeno quattro episodi, dove le progressioni erano curiose: “Darkness”, “Growing up”, “My head sounds like that” e l'irripetibile “Signal to noise”, a mio avviso apice di tutta la carriera gabrielliana. Ma “And still” da sola, è valsa questa lunga attesa.
Dicevo prima, di cose che per me sono valori, e per altri disvalori. Mi riferisco al fatto che, molte di queste canzoni, mi hanno inevitabilmente fatto pensare ad altre sue precedenti, e per alcuni è un difetto. L'intima “Playing for time” è la “Book of love” di quest'album; “Road to joy” è la “Steam”; “Live and let live”, l'ultima nella tracklist, è la “In your eyes” (tanto che sembra di risentire alla fine Papa Wemba, come scriveva qualcuno, la sua “africanata”) e così via. Per qualcuno, questo significa che Peter Gabriel ha finito le idee. Ma parliamoci onestamente: che razza di idee sono state? Quell'unione tra pop, progressive, soul, elementi presi dalle musiche etniche fuse insieme, con l'ambizione di creare una musica “dell'umanità”, che la esprima nella sua interezza... Dopo aver raggiunto questo stato dell'arte cosmologico, cos'altro dovrebbe inventarsi ancora?
Le opzioni erano due: o andare silenziosamente in pensione, o fare quel che speravo: una sorta di riassunto, un tirare le somme. Ed eccolo qua. La connessione tra popoli è un tema ricorrente. “Receive and transmit”, cantava nell'apice di “Signal to noise”, canzone apice del disco apice della carriera. E quindi da lì è ripartito: “i/o” sta per “input output”, come dice la titletrack: “Stuff coming out, stuff going in / I'm just a part of everything”. L'altro tema ricorrente è il rapporto tra umanità e tecnologia. E “Olive tree” è un testo carico di immagini poetiche e riferimenti simbolici in questa direzione, fra mondi diversi e... telecinesi? “And I slide into the waves / Leaving land behind / It's another world I’m entering now / There’s the shark pushing through the swaying reeds (…) But here in this helmet / I can read other minds / And scan all the thinking”. Che paura...
Peter Gabriel è seguace di un altro visionario, il regista Alejandro Jodorowski, e questo spiega tante cose! Nell'album, compaiono quattro cavalli (forse dei cavalieri dell'Apocalisse?), in “Four kind of horses”, dove parla di una percezione: “We feel the vibration / we'are holding it now / we feel the vibration / it's coming out of the ground”. E, come risposta alla consapevolezza espressa in passato in “My body is a cage”, il mio corpo è una gabbia, arriva “Road to joy” a trovare la via di fuga (anche come risposta alternativa alla “Road of nowhere” di Byrne): “Been so many days, been held inside this body (…) Back in the world / Waking up the road to joy”.
Come un Benjamin Button, in “So much” nasce anziano e cresce ringiovanendo: “Time slips in the mirror / As an old man, I was born / But I've grown to be a baby / With a halo and a horn”. L'aureola e le corna, altro doppio... Ma soprattutto, qui si esprime la proverbiale filantropia di Peter Gabriel, che vuol essere d'ispirazione anche per le generazioni future: “So much unfinished business (…) Set the navigation / For the Earth all warm and wet / And as the longing drops away / The compass is reset / Ah, there’s so much to aim for”.
Altre immagini poetiche in “This is home”: “Running down these roads of glass / With no way to see through them / We struggle through the buzz and the grind / Of one thing I'm certain / I know this is home”. Altre canzoni riflettono sui massimi sistemi. C'è la necessità del perdono in “Live and let live”: “You dream of revenge (…) with an eye for an eye, again and again, until the whole world is blind”. Ed ecco l'amore, che può guarire, concetto che può suonare hippie detto da altri; ma non dimentichiamoci che “Don't give up” ha realmente salvato dal suicidio molte persone. E così, ecco la sognante e delicata “Love can heal”.
Insomma, per chi lo conosce già, è il solito Peter Gabriel, né più né meno, ed è un grandioso saluto. Ma nel contesto attuale, di una musica sempre più frettolosa, scritta per soddisfare gli algoritmi e l'hype, ingoiata da una cricca di pochi che pretendono di decidere cosa piace a tutti, vedere “i/o” svettare in classifica anche in Italia, è un gran bello schiaffo a questo mercatino di ruffiani. Questo è Art Pop, con la P maiuscola. Che io spero abbia giovani eredi, perché “There’s only so much can be done”. (Gilberto Ongaro)