KAMBODSJA "Resilient"
(2023 )
I Kambodsja sono Jørgen Thobjørnsen, Baard Bøhlum, Thorbjørn Ottersen e Tom Byermoen: quartetto norvegese originario di Drammen, non-ridente cittadina industriale a quaranta chilometri da Oslo, da vent’anni o poco meno dispensano con incrollabile fedeltà alla linea la loro ricetta a base di molta elettricità, veemenza, furia q.b.
Nell’arco di cinque album, rilasciati tra il 2005 e l’altroieri, hanno progressivamente affinato il proprio stile, mettendo a punto una scrittura sempre più personale e distintiva, affrancata dalla ruvida abrasività degli esordi in direzione di una più strutturata – e centrata – declinazione dell’immarcescibile verbo punk.
Pubblicato per Mas-Kina Recordings, “Resilient” offre nove tracce per quarantadue minuti di assalto frontale, parenti sì del focoso impeto che fin dagli esordi ne caratterizza l’approccio, ma filtrati da una elaborazione più matura e consapevole della grezza materia sonora degli albori. Passati da trio all’odierna formazione già all’epoca di “Year one” (2012), hanno da lì in avanti rifinito un esaltante connubio di metal, punk e progressive sui generis, traboccante di virulenta energia, interamente eseguito sul filo di un sovraccarico emozionale mai domo, eppure capace di mitigare brani tesi e violenti con melodie accattivanti e pregevoli tessiture armoniche.
Ben chiara fin dal precedente “Stranger” (2016), la tendenza è qui portata a sublimazione in un post-qualcosa asperrimo a tratti, asfissiante delirio psicotico saturo e denso, impregnato di chitarre disturbanti, ritmi frenetici, drumming forsennato e cangiante canto variegato, tutti elementi che confluiscono in un maelstrom realmente ubriacante.
Senza requie né ripensamenti, a prendersi la scena sono di volta in volta una fortissima eco dei veri Pixies (la convulsa opener “Idlemind”, la successiva “Basement prophet”, scossa da un basso à la Stranglers e da staccati nevrotici affini ai Jesus Lizard), o staffilate post-hardcore (i prodigiosi sette minuti e mezzo di “Shade to the sun”, con vocals screamo memori dei La Dispute), ed ancora stop-and-go a singhiozzo, ritmi frantumati e ricomposti, accelerazioni improvvise, tempeste perfette, accenni di growl (“Black canvas”), schegge impazzite di matrice fugaziana (“Mr.Hotshot”), grida belluine, crescendo parossistici, ritornelli efficaci e muraglie di rumore, giù fino agli inferi della conclusiva “Obstacles”, cavalcata quasi brutal-metal chiusa da una impronosticabile coda math.
Album di tremenda intensità, non privo di una sua inafferrabile accessibilità sottotraccia, “Resilient” è una roboante deflagrazione che mai cessa, neppure quando muta registro o simula una quiete effimera, conservando altresì intatta una ferocia che scaturisce dal profondo. (Manuel Maverna)