WERNER DAFELDECKER "Neural"
(2023 )
Le neuroscienze sono affascinanti. A quanto pare, quando impariamo qualcosa di nuovo, un concetto, un oggetto, un sistema di regole, o una persona dai modi diversi dai nostri, che non avevamo mai conosciuto prima, il cervello crea delle nuove connessioni neurali. E quindi amplia la sua capacità di elaborazione. Più impara, più le connessioni aumentano. Con la musica è lo stesso: se conosce stili, ritmi, melodie, timbri diversi, amplia la capacità di apprezzarne un numero maggiore. Al contrario, se ci si abitua a un solo genere, diventa refrattario a tutto il resto.
Se, nel bel mezzo di un'esperienza musicale un po' dilatata, impara dei pattern che poi ritornano, la rete neurale li riconosce, e trasmette una sorta di piacere (dopamina) che si genera dall'interno, dal corpo stesso, anziché dalla musica. È il principio per cui si scrivono i ritornelli nella musica pop, ma anche per il quale i leitmotiv di Wagner sono così efficaci nel distruggerci.
Il compositore austriaco Werner Dafeldecker cerca esplicitamente di massaggiare i nostri neuroni, col suo nuovo lavoro dall'inequivocabile titolo “Neural”, uscito per la Room40 Records. Lo fa in due tracce, con due modalità e con due organici differenti. La prima è la titletrack. “Neural”, composta per due violoncelli e due contrabbassi. Già da questa scelta si intravede il tema del doppio, il doppelgänger, l'altro da sé che però lo rispecchia. Vogliamo giocare coi neuroni specchio?
Cosa si ascolta in “Neural”? Si tratta di lunghe singole note, prolungate, doppiate, con variazioni minimali (semitonali e addirittura microtonali). Gli strumenti si rincorrono, accentuando le risonanze. I musicisti suonano le note fino al naturale smorzamento, dovuto alla... fine dell'archetto! Almeno credo. E il necessario movimento di ritorno, crea alla fin fine dei loop. Forse l'uso del doppio violoncello e del doppio contrabbasso serve anche ad ovviare a questa condizione fisica, aumentando il continuum del suono, eludendo il senso di loop. Ad un certo punto si perde la cognizione della nota: si percepisce solo il suono in sé.
Per chi è pratico, prendete un cavo di amplificazione, attaccatelo alla cassa, e dall'altro lato toccate la punta col pollice. Innescherete il ronzio. Ecco, pur essendo note d'archi, questa è la consistenza che assumono i suoni. Puro impulso elettrico, nonostante gli strumenti siano acustici: elettrico nel senso della ricezione, di quello che avviene nella nostra testa. Forse il fulcro dell'esperimento è quello. I suoni rimbalzano nel cervello non solo dopo, ma anche durante l'ascolto, durante tutti e 28 i minuti dell'esecuzione.
Per la seconda traccia, “Tape 231”, di altri 28 minuti, Dafeldecker cambia strumenti: si passa all'elettronica, allacciata al clarinetto basso e ai gong. Anche qui lo spazio si dilata. Ci chiudiamo in un antro algido, ma anche i suoni elettronici più freddi si scaldano, grazie alla cura nella ricerca di quelle oscillazioni che titillano maggiormente le orecchie (ovviamente bisogna ascoltare rigorosamente in cuffia). Le note naturali del clarinetto si confondono nel mare sintetico di questa traccia, diventano una cosa sola.
È curioso come sia stata concepita questa seconda parte del lavoro: Dafeldecker è andato per sottrazione. Ha trovato una vecchia musicassetta, e si è basato sui toni, la dinamica e la densità dei suoni allungati che ha sentito. Ma se ne è servito solo per estrarne la struttura, sulla quale ha lavorato elettronicamente... e poi ha tolto tutto quello che era la “griglia” orientativa della musicassetta, lasciandoci solo con la musica elettronica (più le note del clarinettista e del gong), senza la struttura di riferimento di partenza. Questo crea una strana sensazione di ordine, nonostante l'orecchio percepisca una staticità di suoni di fondo, e una presunta anarchia di impulsi circostanti.
Chissà come la prende il vostro cervello, quest'esperienza sfidante e intrigante! (Gilberto Ongaro)