OGIVES "La mémoire des orages"
(2023 )
Talora, alcuni temerari tentano di portare la musica un po’ più in là, di traghettarla verso altri lidi, di esplorare limiti remoti con contaminazioni ancora non battute, di elevarne il linguaggio oltre le convenzioni: “La Mémoire des Orages” – su label Sub Rosa, con missaggio di Steve Albini - si cimenta nell’impresa, scavalcando ogni facile declinazione o connotazione di maniera.
All’improbabile crocevia fra Tool, Dead Can Dance, Thee Silver Mt.Zion e Aquaserge, l’ottetto belga Ogives – nato dalla creatività colta e sfaccettata del multistrumentista Pavel Tchikov e del poeta/batterista Alexis Van Doosselaere - guida la propria idea nel bel mezzo di una landa dai confini smarginati e indefinibili, una terra di nessuno sulla quale aleggia una bellezza antica, spesso incupita, mistica e sfuggente. Riflessione profonda sul tempo e sulla morte, l’album raccoglie settantacinque minuti sovraccarichi di un’intensità strabordante, convogliata in lunghe tracce scosse da movenze sinuose, scatti repentini, mutazioni inattese.
Percorso dal fil rouge della vocalità celestiale di Marie Billy e Zoé Pireaux, oscilla con disinvoltura tra molteplici suggestioni neoclassiche ed inusitate esplosioni post-rock (“Black Furrows”), tra concessioni mascherate al progressive e divagazioni in territori jazz (“Patience V-VI”), imbastendo composizioni cangianti, opulente e preziose (“Patience I-II”, da Schönberg ai Three Mile Pilot, passando per gli Shellac).
Sfilano sulla ribalta musica da camera, tessiture elettroniche, fiati, cori polifonici e monodici, saliscendi emotivi, stasi ed elettricità disturbata, echi psych, accenni free (“Mighty pumpkin”, straniante miscela di Pink Floyd e Girls in Hawaii, con un visionario testo noir à la Handsome Family), contemporanea contorta e ondivaga (i quattordici minuti de “L'oubli-Von Nun and Drängt Die Zeit”), tempi dispari, folk arcaico riaggiornato, umori chiesastici, testi che alternano francese ed inglese dispensando tenue melanconia, poesia surreale, esistenzialismo contrito (“Patience III-IV”, maestosa aria afflitta degna del Robert Wyatt di “Rock Bottom”).
In coda – solitari, stralunati, toccanti - restano i due minuti di “Epilogue”, pochi versi che inghiottono tutto il dolore, i dubbi, i più bui presagi, gli ostacoli imprevisti ed ogni incertezza nel mezzo del cammino: there on the high mountain lies my house/confortable and warm, detached from time/come along, we will sit together/and drink up our century, while gazing at the vastness (lì sull'alto monte c'è la mia casa/confortevole e calda, distaccata dal tempo/vieni, staremo insieme/berremo il nostro secolo, guardando la vastità).
Speranza o oblio che sia, forse non serve altro. (Manuel Maverna)