MATTEO MUNTONI  "Nur-bisu"
   (2023 )

“Chissà com'erano allora il Rio delle Amazzoni, ed Alessandria la Grande, e le preghiere e l'amore, chissà com'era il colore?”. Franco Battiato si chiedeva com'erano queste cose nell'epoca dell'Olocene, nella canzone “Strani giorni”. Non so che c'entri con questo disco, forse nulla, ma mi ha fatto venire in mente queste domande del Francone nazionale.

Magari, il nesso è che la ricerca di Matteo Muntoni parte dall'archeologia, a proposito dei reperti sardi: nuraghi, tombe di giganti e statuette di suonatori. Muntoni, e molti altri, si sono chiesti come fosse la reale musica della Sardegna antica, oltre che le danze e i riti ad esse collegati. E allora, con la propria fantasia, lasciandosi ispirare da tutte queste suggestioni, Muntoni realizza “Nur-bisu”, un concept album interamente strumentale, in cui il concept è, appunto, musicale. Melodie, ritmi e sonorità che cercano di costruire una propria coerenza estetica, che in qualche modo sia collegabile all'archeologia di Cadossene.

Muntoni suona il basso e la chitarra, con i quali inserisce un po' di jazz sui generis, in questo tentativo di reinvenzione Shardana, nel brano “Nur”, che fa parte dell'omonima prima parte del disco (suddiviso in due parti). Volerci vedere qualcosa di precipuamente ichnuso può essere influenzato, dal fatto stesso che è stato dichiarato. Senza leggere nulla di tutto questo, non troviamo molti elementi che possano direttamente richiamare la Sardegna. Tranne forse quel sottile suono di fiato, forse un flauto, in “S'abba tenet memoria”. Ma in tutto questo forse, si mantiene il mistero, dato che non si può risolvere, tanto vale infittirlo, creare ulteriori enigmi.

Come ad esempio il minuto di “Bisu”. Potremmo dire che è una cover abbreviata di “4:33” di John Cage, perché... è un minuto di silenzio. Totale. Inspiegato. Ho cercato cosa volesse dire “bisu” in sardo, e significa “sogno”. Chissà, può essere l'audio di uno che dorme, cioè il suo silenzio. Fatt'è che con “Brebu” ci risvegliamo in un morbido rock in 6/8, dove la chitarra indugia in note su scala minore armonica. Dopo 4 minuti e mezzo di questo rock drammatico, la band si ferma e una voce femminile canta da sola, in attesa della luminosa ripartenza assieme alla band, raggiunta anche dal violino. Un episodio emozionante.

Il mistero continua nella sinuosa melodia vocale di “Luxa arrabiosa (Juanas ag mur)”, che insegue la chitarra in un mix di malinconia ed enfasi, finendo ripetendo la frase “Juanas ag mur” più volte, come una formula magica, un qualcosa di rituale. Con “Maimoni”, stavolta sono voce e basso ad inseguirsi all'unisono, tra cromatismi e intervalli imprevedibili. Poi, la voce parte in acuti, vibrati non convenzionali e rapidissime sillabazioni che hanno di nuovo il sapore di un culto inafferrabile.

Matteo Muntoni ha creato un nuovo segreto da decifrare, del tutto musicale. La sua bellezza sta nell'essere sfuggente ed ammaliante, chiuso e allo stesso tempo vasto, che comunica ampiezza di spazi. Meglio non tentare esegesi, e lasciarsi ammaliare. (Gilberto Ongaro)