HUGOMORALES  "Hugomorales"
   (2023 )

La mucca ingoia l’arcobaleno/di fronte alla gente di Vipiteno.

Questo l’incipit: benvenuti nel mondo a latere di Emiliano Angelelli, in arte – per ora – Hugomorales, in previsione di eventuale nuovo alter ego prossimo venturo.

Lo scenario è un microcosmo dove niente va come dovrebbe, o forse è soltanto uno spin-off del mondo as-we-know-it, come fosse visto attraverso specchi deformanti, luci stroboscopiche, trucchi di scena.

Trionfo del nonsense? Magari no, potrebbe trattarsi semplicemente di una prospettiva differente: esige apertura mentale, richiede incondizionata disponibilità all’ascolto immersivo, con elevata probabilità di perdersi in un labirinto di illusioni costruito per sorprendere e attrarre. Tra echi wave anni ottanta, vaghe suggestioni folkish, la Tra La La Song buttata lì in “Banana Split” tanto per gradire, strampalate love story finite male, un serpente che vaga in città come il ragno di Ubba Bond, scorrono sulla ribalta di questo teatrino off – così, en passant - una serie inesauribile di ritornelloni, ganci e boutade ben più che accattivanti, figli di una lavorazione DIY casalinga - quasi interamente eseguita in perfetta solitudine - e della libertà concessa da Tazzina Dischi, interessante label indipendente.

Facendosi esplicitamente beffe della normalità o presunta tale, disegna scenari surreali degni del Lucio Corsi di “Bestiario musicale” (“Mucca arcobaleno”, “New York”), corretti con la follia naif di Manuel Bongiorni (“Carota”), con lo humour imprevedibile del Duo Bucolico (“Palazzo di gelato”) e con un dieci per cento dell’eclettismo sui generis del Niccolò Contessa periodo “Glamour” (“Giraffe spaziali”): quello che ne esce è una pièce stralunata dalla strabordante valenza immaginifica, una galleria di situazioni e personaggi tra il grottesco e il tragicomico, mostri docili o indomabili a seconda dell’estro del momento. L’effetto complessivo è straniante, specie sulla lunga distanza: spalancata la porticina su questo vivace sottobosco visionario, non resta che accettare la sfida ed accedere al privé, nel quale ad attendere gli ospiti siede in penombra una pletora di creature improbabili, per metà macchiette, per metà incubi.

Ispirato in parte dalla fantasmagoria fumettistica di Gianni Rodari, altrove da una lucidissima follia personale, ma anche perfettamente in grado di mostrarsi serio e compìto in più occasioni, Emiliano pennella con nonchalance l’amaro alt-country in minore di “Far west”, la cupa elettronica de “Il mistero dell’uomo contento” (quasi i Baustelle), l’ariosa ballata di “Intelligenza artificiale”, capace di convogliare in un testo affatto scontato il piglio pungente di Alessandro Fiori.

Mood generale cangiante e ambivalente, creatività dispensata a profusione, risultato indefinibile: però funziona, eccome. (Manuel Maverna)