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FONTAINES DC "Live Alcatraz Milano 04-11-24"
   (2024)


THE CURE "Live Troxy Londra 01-11-2024"
   (2024)

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THE CURE   "Live Ovo Arena Wembley Londra 13-12-2022"
   (2022)

Eccolo arrivato, il quarantaseiesimo concerto, tappa finale di un tour sorprendentemente forte ed emotivo come mai in passato i Cure erano riusciti a porre in essere.

Ad anticipare i nostri, ancora una volta i Twilight Sad (a conti fatti, ormai uno dei gruppi che ho visto di più nella mia carriera di guardone rock!) e dopo l’ultima sviolinata da parte di James Graham, inizia l’ultimo rituale dei roadie, per preparare il campo ai cinque musicisti agli ordini di Robert Smith.

Ad ogni canzone parte la solita partecipazione, accompagnata, questa volta, ad alcuni flash con i quali vogliamo fissare nella memoria attimi e frammenti di un intero tour.

Così, per esempio, sono certo che mi ricorderò di “Pictures of you” non solo per quel duetto con Simon Gallup (un po’ da cliché ma che piace tanto a tutti), ma anche per quell’abbraccio che Robert riserva alla sua chitarra, compagna di vita fedele e quasi una prolunga delle sue braccia.

“Ci provo a non commuovermi questa volta”, mi dico, quando parte l’intro di “And nothing is forever”. Ma, anche oggi, l’impresa risulta vana, mentre partono le note pennellate da O’Donnell, sai già che quelle parole faranno ancora breccia in te… e chissenefrega del vicino, è anche il mio momento questo, lasciatemi godere e piangere allo stesso tempo.

Come ormai sappiamo, il mainset si chiude con due canzoni in cui le chitarre la fanno da padrone. Con “From the edge of the deep green sea”, è proprio Robert Smith a ribadire il concetto, quando afferma (nel recente booklet della deluxe edition di “Wish”): “E’ una canzone piuttosto delirante, e senza dubbio il mio miglior momento da aspirante Hendrix”. “Endsong”, invece, è una suite che cresce piano piano, per accompagnare il dolore del suo autore.

Al rientro, quando Robert canta l’amore per il fratello, sembra che l’intera Wembley Arena si ghiacci di fronte alla sua espressività. Poi, arriva la prima sorpresa del tour con “Three imaginary boys” e le luci ad illuminare i soli Smith, Gallup e Cooper. A confermare quanto il primo dei rientri sia forse quello dal più alto valore artistico, arriva una versione da urlo di “One hundred years”, una “Primary” (singolo dell’album “Faith”) e “A forest”, chiusa da un rabbioso Simon, mentre percuote e violenta il proprio basso elettrico.

Rientrato in scena per l’ultimo encore, Robert Smith ha parole di ringraziamento un po’ per tutti, da Twilight Sad, fino ad arrivare a chi con tanta passione l’ha seguito fino a questo punto.

Ad un copione che pare ricalcare il classico rientro pop (con l’aggiunta di una “Doing the unstuck” non eseguita proprio al massimo), il capobanda vuole fare l’ultima sorpresona di fine tour. Così, dopo “Boys don’t cry”, si rimane sul palco, mentre inizia a perdere il rubinetto di “10.15 Saturday night” che lascia il posto alla miglior conclusione possibile. Quando la chitarra di Robert Smith scandisce le note di “Killing an arab”, la platea diventa un’onda in movimento in cui rimanere in piedi non è proprio la cosa più facile del mondo, ma che, tuttavia, non impedisce a ciascuno di noi di cantare le parole del primo singolo del gruppo.

Concludiamo anche questo tour. Un tour che abbiamo così tanto desiderato da viverlo con ancor più intensità rispetto al passato. E di intensità ne abbiamo proprio presa tanta, perché ci sono state tante di quelle cose che, si sa, le recensioni solo in piccola parte possono cogliere. Pensando (e rileggendo) le mie considerazioni finali dell’ultimo tour (2019), mi accorgo quanto quello finito da sole poche ore sia stato, in effetti, molto diverso. Tanto il precedente viveva di un contagioso buon umore, quanto questo ha scavato intimamente nell’animo di tutti. Non abbiamo più i vent’anni spensierati e il tempo ha segnato cicatrici che anche lo specchio più gentile non può camuffare. Ecco, ascoltando le parole delle nuovissime canzoni di Robert Smith siamo sempre più convinti di questo e, mai come in passato, quel signore in nero ha scavato dentro i nostri più intimi sentimenti e lo ha fatto mostrandosi nudo di fronte ai sui fan. Fragilità; è questa una parola che legherei (molto) ai concerti di quest’anno. Spiattellando il dolore, la constatazione del passaggio del tempo, la paura del futuro, Robert Smith ha trovato la chiave per aprire il suo ed il nostro cuore e, facendolo, ha cementato ancora di più quell’indissolubile catena che ci tiene fedelmente ancorati a lui. (TESTO E FOTO GIANMARIO MATTACHEO)