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BIG THIEF "Live Locomotiv Club Bologna 22-02-20"
(2020)
(live report e foto di Samuele Conficoni)
“È la prima volta che suoniamo in un vero e proprio locale in Italia. Mi piace il fatto che siate tutti appiccicati e sudati!” Questo dice, intorno a metà concerto, Adrianne Lenker, cantante e chitarrista dei Big Thief, autrice di tutti i brani e performer dotata di una voce magnetica dalla intensità interpretativa infuocata. Nel giugno dello scorso anno, infatti, per il loro primissimo show nel nostro paese, si erano esibiti sulle spiagge del Beaches Brew di Marina di Ravenna. La poetica dei Big Thief, caratterizzata da piccoli gesti di straordinaria importanza, da parole taciute o appena sussurrate, da passati tormentati mai del tutto dissoltisi e da vittime e carnefici che si cambiano di continuo di posto, si rispecchia nella religiosità con la quale gli spettatori ascoltano, rapiti, il concerto, che aumenta di intensità e qualità canzone dopo canzone, in un rito collettivo di purificazione che è sia sensoriale sia spirituale, una sinestesia di emozioni suggerite o gridate. Reduci da un 2019 perfetto, con due grandi album pubblicati a distanza di cinque mesi l’uno dall’altro, i Big Thief sono probabilmente la band folk-rock più in forma al mondo in questo momento, e anche nello show di Bologna al Locomotiv dimostrano di stare vivendo la loro personalissima akmè.
Il concerto si apre con “Masterpiece”, un classico contenuto nell’album d’esordio dei nostri, che spesso i loro show li conclude. La morte e l’incapacità di dare un senso al reale caratterizza la maggior parte dei testi – di qualità altissima, così come tutte le melodie – del quartetto, che reagisce a questa condizione con una tempesta di voci, di elementi tangibili, di situazioni che puoi quasi toccare e odorare, di personaggi che appaiono e provano a ribellarsi al destino. In scaletta ci sono il Paul dell’omonima canzone, sempre tratta dal loro esordio, eseguita splendidamente e con un fuoco particolare da Adrianne. Ci sono Caroline e Violet di “Cattails”, il gioiello folk che coniuga i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza di Lenker con una melodia-filastrocca che non ha né inizio né fine, che abita magnificamente la Martin a dodici corde che lei suona nel pezzo. Ci sono poi i carnefici-vittime di “Real Love”, “Shoulders” e “From”, anche queste cantate e suonate divinamente, che trasportano il pubblico in territori disabitati e fantastici.
Ma non è certo tutto qui. Le grida di libertà che percorrono ogni centimetro cubo delle canzoni dei Big Thief sono infatti l’atto (non solo artisticamente parlando) fondante del turbato e turbante processo creativo che le porta alla vita. Forse è per convincersi che quella libertà non è poi irraggiungibile che quelle canzoni esistono. Le grida di rabbia si trasformano in grida che proclamano la tolleranza, il dovere di coltivare speranze, l’accettazione di una malinconia che è sintomo che il percorso per raggiungere la pace interiore è tortuoso e lunghissimo. Così accade in “Forgotten Eyes” (“Forgotten tongue is the language of love”, grida Lenker prima di trattenere nel fondo della sua gola l’ultimo “tongue” così roco e tagliente) e persino in “Not”, elenco per contrasto – con una lista di tutto ciò che non è – di come la narratrice vede le cose e le persone che le stanno intorno, dove tutte quelle negazioni non fanno altro che nascondere il vero soggetto e, paradossalmente, proprio tramite questa operazione, renderlo ancora più vivo. È in questo senso che anche “Contact” esiste, sensuale e strisciante, malefica e torbida, e, proprio come la versione in studio, conclusa dalle urla graffianti di Lenker che provano a scalfire quel velo di Maya che rende difficile scrutare la verità delle cose.
La band è in uno stato di grazia pressoché impossibile da scalfire e procede spedita dando vita a uno spettacolo semplicemente perfetto. La coesione tra i membri del gruppo ha raggiunto livelli sbalorditivi. In alcuni pezzi, come “Rock and Sing”, “Cattails” e “Masterpiece”, i quattro sanno divertirsi e sorridere, con Lenker che quasi accenna a un balletto all’interno di brani che nella loro dolcezza in realtà nascondono un contesto nostalgico di debolezza, di morte, di carne indifesa. In altri pezzi, invece, la natura selvaggia e tattile delle loro canzoni sfocia in rituali tribali di rabbia e di lotta, come in “Not” e in “Real Love”, tra feedback potenti e assoli di chitarra violenti. Carne e sangue, amore e tragedia sono i protagonisti di “Shark Smile”, road trip demoniaco che insieme a “Cattails” è la canzone che il pubblico canta a voce più alta. Anche “Parallels”, che chiudeva l’album d’esordio del quartetto, si ritaglia uno spazio assolutamente meritato in scaletta. Dopo “Cattails” e qualche minuto di pausa, l’encore vede Lenker essere l’unica a risalire sul palco. Dopo qualche secondo di esitazione ci regala una sola canzone, suonata da sola con la chitarra acustica, “Orange”, storia d’amore spettrale che Adrianne esegue tutta d’un fiato, quasi come se una colpa ancestrale la seguisse dall’inizio alla fine del brano.
Nel corso della serata, Adrianne aveva presentato anche tre brani nuovi. Uno di questi pezzi, “Sleep Paralysis”, compariva spesso nelle scalette dello scorso anno. Lei sottolinea come non lo avessero mai eseguito in questa forma, con lei alla chitarra acustica anziché a quella elettrica. Un altro, “Two Rivers”, sembra proseguire l’onirico e spettrale folk creato su UFOF, mentre un altro ancora mostra un’anima più sabbiosa e aggressiva e sembra seguire maggiormente le linee tracciate con Two Hands. Gli arpeggi e i riff di Adrianne sono precisi, perfetti, ampi e soffocanti al medesimo tempo, e riescono a farti respirare e un secondo dopo annegare tanto sono affascinanti. La coesione e l’umiltà – piccola nota personale che funge da esempio: sono riuscito anche a ottenere l’autografo della band sul mio CD di UFOF – di Adrianne, Buck, Max e John danno vita a qualcosa di magico. Sembra chiaro che i Big Thief partecipino di qualche natura per ora a noi sconosciuta.
(Samuele Conficoni)