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BOB DYLAN "Live The Beacon Theatre New York City 03/05/06-12-19"
(2019)
Con dieci show nello splendido Beacon Theatre di New York, al 2124 di Broadway, dal 23 novembre al 6 dicembre con pochi giorni di pausa durante questa lunga residency, e con uno show a Washington DC l’8 dicembre, Bob Dylan e la sua band chiudono un 2019 trionfale. Quella del 2019 è stata una tournée tra le migliori in anni recenti. Il cantautore statunitense è in uno stato di forma sensazionale, presenta una scaletta abbastanza fissa – con pochissime variazioni da leg a leg – e in autunno ha aggiunto un chitarrista e sostituito il batterista rispetto alla formazione che lo aveva seguito in Europa in estate. La band è formata da Bob e da altri cinque elementi. Ho assistito agli ultimi tre show del Beacon, in un’atmosfera in bilico tra magico ed estatico, scalette identiche ma interpretazioni sempre sottilmente variate, ciascuno show con un’inaspettata star tra il pubblico che Bob ha salutato e omaggiato dopo aver introdotto la band, ogni volta appena prima del diciassettesimo pezzo in scaletta, “Gotta Serve Somebody”, un blues infernale che in tutte le serate ha portato il pubblico ad alzarsi in piedi, cantare e ballare, con Bob che apprezzava la cosa, sorridendo e ballando anche lui.
Ma torniamo all’inizio. Bob ha ripreso a suonare la chitarra in questo autunno dopo che negli ultimi anni l’aveva toccata pochissime volte in totale tra 2016 e 2018. Ora la suona, una bellissima Telecaster, in due pezzi, durante l’apertura, che spetta sempre al brano che gli valse Oscar e Golden Globe “Things Have Changed”, e durante il primo brano dei due dell’encore, “Ballad of a Thin Man”, dove Bob si concede persino due assoli, a metà pezzo e nella conclusione. Ha sostituito, sempre in questa tranche autunnale, il voluminoso ed esteticamente splendido pianoforte a coda Yamaha, con lui dal 2012, con un pianoforte a muro che produce un suono leggermente honky tonky. Dylan continua, così, il suo tentativo di ricreare una sonorità che rimbalza tra il rockabilly e il jazz delle origini, tra lo swing e il blues più polveroso, da bettola del Mississippi, fino ad arrivare al misticismo romantico del crooner, e in questo senso l’operazione di rivisitazione degli standard dell’American Songbook che ha portato avanti in anni recenti risulta coerente con questo nuovo modo di approcciare i propri brani.
Così facendo, Dylan ritorna anche alle proprie origini. Ritorna al momento nel quale, firmando per la Columbia nel 1961, riceveva una copia promozionale dell’allora ancora inedito King of the Delta Blues, raccolta di brani di Robert Johnson che proprio quell’anno, ventitré anni dopo essere morto, entrava nel mondo discografico e nell’immaginario collettivo di tutti. Suono polveroso, complice anche le registrazioni non eccezionali dell’epoca – stiamo parlando di 1936 e 37 –, voce che pare provenire dall’aldilà e chitarre infernali. Ritorna a Charlie Patton, alla sua “High Water Everywhere”, a quella voce diabolica e cupa. A Blind Willie, a Leadbelly, a tutti i fantasmi che lo ossessionano da quando ha iniziato a suonare. La Highway 61 – filosofia, idea di suono e brano stesso, del 1965 – non abbandona più la setlist. Quella è la strada che ha formato grossa parte del suo immaginario, quella strada, ricordava anni fa, dove vide morire tanti suoi coetanei in incidenti in moto o in auto. La Highway 61 lo riporta, per qualche motivo, agli choc che i nomi leggendari menzionati qualche riga sopra hanno prodotto in lui. Morti mai morti che lo perseguitano e dai quali lui è ben felice di essere perseguitato.
Ora, sul palco, Bob pare volere accettare questi morti mai morti con un sorriso. Non li nasconde più, li venera senza divinizzarli ma giocando e dialogando con tutti loro. E sa di non poter rivivere lo zeitgeist che aveva incarnato ciascuno di loro. Sa però bene di avere vissuto e di stare ancora vivendo il proprio, quello del più grande cantautore della sua epoca, della sua generazione, un’icona che da oltre cinquant’anni non ha eguali. “It Ain’t Me, Babe” ora non è più un acido commiato di menefreghismo ma un’accettazione sardonica del fatto che nessuno può seguirlo ed essere al suo livello. In “Simple Twist of Fate” la malattia d’amore non è ancora guarita, il narratore la cerca ancora tra gli isolati della città, persino alle banchine di fronte al mare dove tutti i marinai arrivano. Tuttavia nell’ultima strofa riconosce di nuovo di non aver bisogno di nessuno, di essere una cima non raggiungibile, e non si perdona di averla fatta entrare nella sua pelle: era troppo tardi, ormai, e lui aveva un altro impegno che non poteva aspettare.
Il nòsos (la malattia d’amore nella Grecia antica) caratterizza anche “Can’t Wait”, dove il narratore si sorprende che, dopo tutto questo caos, per lui lei è ancora l’unica. I movimenti serrati e nervosi di un Dylan che sta al centro del palco a cantare e non sa stare fermo esprimono tanto quanto il testo del brano la sua incapacità di darsi pace in merito a qualsiasi cosa. È indemoniato. Si diverte a fingere di esserlo o forse lo è veramente. Ci sono tanti episodi che strappano più di un sorriso, come la splendida “When I Paint My Masterpiece”, dove c’è il Colosseo e ci sono giovani donne che mostrano, a Bruxelles, i muscoli, brano dove da un anno e mezzo compaiono alcune intriganti variazioni liriche rispetto all’originale, come «sailing ‘round the world for the crimson and clover / sometimes I think that my cup is running over».
Lascia Roma, nel testo, aspetta ancora il suo capolavoro, lo aspetta qui senza ansia e ride, ride di sé stesso e di noi, lascia il piano, va al centro del palco e sfodera un superbo assolo di armonica. Come fa anche in “Make You Feel My Love”, dove è al centro del palco dall’inizio alla fine, soffia nell’armonica e canta come un crooner. E canta come un crooner anche nella polverosa – questa è polverosa nel testo, roba da gangster, e non nella melodia pulitissima: Bob la canta suonando il piano davanti a luci soffuse – “Soon After Midnight”. In “Early Roman Kings” diventa uno dei Re del Bronx, non ha paura “di puttane o di streghe”, canta anche qui al centro del palco e danza con l’asta del microfono. Dietro di lui, anche questa è una novità di questo tour autunnale, ci sono tre manichini che osservano. Inquietante. Sul palco c’è la solita riproduzione dell’Oscar, c’è, vicino al pianoforte, il solito busto “Poesia” di tale scultore Antonio Giuseppe Garella (1863-1919) che par essere nato a San Luca. C’è un altro busto, alla sinistra dello spettatore, che sembra raffigurare Minerva. Dylan è in forma smagliante in tutte e tre le sere, vestito di bianco il 3, di nero il 5 e il 6, sempre senza cappello, con folti riccioli grigi e stivaletti neri.
“Girl from the North Country” è un diamante. È quasi un dialogo solamente tra pianoforte, voce e violino, ma a un tratto anche le chitarre creano un qualche effetto sonoro. Si ritorna alle origini, alle melodie vagamente irlandesi di questo pezzo che ha alla sua base una melodia tradizionale antichissima. C’è “Lenny Bruce”, reintrodotta in scaletta proprio quest’autunno dopo undici anni che non veniva eseguita. È una ballata amara che non si abbandona alla rassegnazione, incentrata prevalentemente su Dylan, il suo piano e le sue note basse. Lenny Bruce è passato oltre, andato come quelli che l’hanno ucciso. Anche qui, come in “Masterpiece”, c’è qualche piccola variazione lirica. “Tryin’ to Get to Heaven” e “Honest with Me” continuano a convincere nelle loro incarnazioni recenti e “Thunder on the Mountain” fa saltare e ballare l’intero teatro. In scaletta c’è “Not Dark Yet”, sublime e provocante, malinconica e schietta, con un arrangiamento alla Radiohead, che Dylan canta in maniera divina, altra grande aggiunta al set sempre in questo autunno, un brano che era mancato dal vivo dal 2012. “Gotta Serve Somebody”, anche questa con variazioni liriche continue sin da quando è tornata in scaletta nell’estate 2018, fa ballare il pubblico, che si alza in piedi, balla e canta, e lo stesso Dylan, che ciondola in piedi sul pianoforte come Jerry Lee Lewis e a fine brano va al centro del palco e s’inchina. Poi, dopo quattro minuti di pausa, ecco che c’è l’encore. Prima “Ballad of a Thin Man”, Bob in grande spolvero con la sua Telecaster e band aggressiva, e il blues amoroso e sprezzante di “It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry”, che chiude da mesi ogni show, dove Dylan, in piedi di fronte al piano, gesticola, balla, ride e canta senza aver paura di alzare la voce e utilizzare un falsetto ipnotico.
Dicevamo degli ospiti presenti ai tre concerti ai quali ho assistito, gli ultimi tre dei dieci totali a New York quest’anno. La sera del 3 c’è Jack White. Dylan lo saluta e lo invita ad alzarsi – ma in quel momento eravamo già tutti in piedi – e a prendersi un meritato applauso. Dylan è allegro, introduce la band, ride con il mitico bassista Tony Garnier e anche con Charlie Sexton. Il 5 c’è Steve Earle tra il pubblico. Dylan saluta lui e un giornalista di Rolling Stone che è tra le prime file, Jann Wenner. Bob è particolarmente scherzoso: «Rolling Stone, sì, quella rivista che parla di sesso, droga e politica». Scherza e sa scherzare con un’ironia tagliente. La decima e ultima serata del 2019, quella del 6 dicembre, al Beacon vede due ospiti d’eccezione tra il pubblico. Dopo aver introdotto, come di consuetudine, la sua band, Dylan saluta prima Steve Van Zandt – “Little Steve”, lo chiama, cita il nome della sua band e consiglia di ascoltare il loro recente album – e poi il grande Martin Scorsese, «probabilmente uno dei migliori, forse il migliore, regista di sempre: il mio film preferito dei suoi è The Last Temptation of Christ, gli ho detto che deve girare per me The First Temptation of Christ: devi farlo, amico, per me!». Un modo davvero indimenticabile di concludere questa memorabile run di dieci concerti che rimarrà nella storia delle performance dal vivo di Bob, una run strabiliante della quale ho avuto il piacere di assistere agli ultimi tre show.
(Samuele Conficoni)