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THE CURE "Live Rock En Seine Parigi 23-08-19"
(2019)
Siamo all’ultimo capitolo del tour europeo per i Cure; un concerto da svolgersi nella tanto amata Parigi di Robert Smith. Esibizioni, quelle di quest’anno, certamente intense, ma poste in essere con un’impareggiabile dose di allegria, tale da rendere le giornate on stage come una festa all’interno della festa; assunto, questo, con valenza tanto per la band, quanto per i fan.
Il Rock en Seine ha il pregio di svolgersi non esattamente in un piazzale dimenticato da Dio, ma in uno tra i giardini più affascinanti di Parigi, luogo in cui la storia ci ricorda avvenimenti di famiglie reali, incoronazioni pompose, guerre… ed oggi (finalmente) musica!
Il festival è un mega raduno con più palchi ed una scelta davvero diversificata, atta a soddisfare i palati più esigenti. Ma, giusto per non fare confusione, mi proietto, senza indugiare oltre, verso il palco principale, quello in cui alle 21.30 ogni colore avrà tinte di nero tra sorrisi variopinti.
La programmazione mi offre, in questa occasione, la possibilità di un’attesa di fronte al main stage ricca di interesse, in quanto alle 17.00 è prevista l’esibizione dei Balthazar, ovvero una giovane band tra le più interessanti dell’ultimo lustro.
È un piacere ascoltarli dal vivo, mentre ripropongono alcuni brani dei precedenti lavori e, soprattutto, il fresco “Fever” la cui traccia omonima si candida ad essere il miglior singolo della stagione corrente e non a caso scelta per chiudere con onore uno spettacolo più che dignitoso.
Rimasto in postazione anche durante la performance successiva ad opera di Jeanne Added (ammetto di non averla mai sentita nominare, sperando di non dovermi più imbattere in tali oscenità), il pubblico dei Cure è ormai caldo per l’ultima fatica stagionale.
Robert Smith conferma l’umore alto(issimo) di un’estate che, partita a Dublino, terminerà in festa oggi, quando la palla passerà dapprima agli appassionati americani e successivamente ancora alla band, nella speranza che i musicisti riescano a partorire un nuovo album in studio.
L’ultima apertura stagionale è ancora per “Plainsong” che inizia quando il pubblico francese, da sempre innamorato dei Cure, porta a livelli altissimi l’applausometro del Rock en Seine.
Robert Smith è il padre padrone dei Cure e lo è tal punto che deve avere il controllo di tutto e tutti. Dagli altri quattro Cure, coinvolti maggiormente quando sembra che perdano un po’ di incisività, ai fonici, quando detta loro ordini circa il settaggio degli strumenti. Così, ad esempio, durante la lunga suite chitarristica di “Fascination street”, il leader prova a dare una spinta in più a Reeves Gabrels, producendosi in un balletto solo per lui, allo stesso modo in cui, per quasi tutto il concerto, cercherà la complicità di Simon Gallup, attraverso parole sussurrate tra un brano e l’altro o, più semplicemente, con complici sguardi d’intesa.
Il bassista, anche stasera, ha lo sguardo da Lupo cattivo, come recita la bandiera che il figlio e roadie Eden gli posiziona dietro l’amplificatore. I problemi personali che lo avevano costretto a saltare la data di Tokio sono evidentemente risolti; pensare ai Cure senza l’alfiere per eccellenza di Robert Smith, avrebbe tolto molto dell’impareggiabile alchimia della band.
In “Just one kiss” Robert Smith volta le spalle al pubblico per guardare direttamente Jason Cooper, impegnato a produrre un’introduzione capace di catturare, prima ancora che il resto dei compari si cimenti nella melodia del pezzo.
Un paio di flash: in “From the edge of the deep green sea” si apprezza uno dei brani tra i più complessi della band, in cui il monocorde e ripetuto battito sulla tastiera di Roger O’Donnell rende splendidamente alienante la canzone (ammettiamo che senza di lui il brano non sarebbe la stessa cosa), e ancora confessiamo di essere catturati durante la successiva “39” (la più intensa di oggi?) in cui Robert Smith diventa così complice della sua chitarra da accartocciarsi in essa fino quasi a scomparire.
Il copione ad un occhio e ad un orecchio meno attento potrebbe essere a grandi linee sempre lo stesso; è vero, forse mai come quest’anno il corpo delle canzoni è rimasto abbastanza costante senza particolari novità tra un concerto concluso e quello successivo, ma è il modo in cui i cinque si approcciano che ne determina un unicum irripetibile, assolutamente differente da un’esibizione già vista. Se a questo aggiungiamo che Parigi rappresenta l’ultimo atto del Summer tour, non sarà difficile comprendere come tra i giardini del Domain National de Saint Cloud si respiri un’aria diversa, più pura e nuova e terribilmente carica d’energia.
Per tutto il tour la band non esegue neppure un pezzo dagli ultimi due album in studio, confermando come “The Cure” e “4.13 dream” siano i capitoli meno intensi dei nostri, ma veramente poco risalto viene concesso pure a “Wild mood swings” e “Pornography”, di cui solo per misericordia abbiamo potuto ascoltare “Want” o “One hundred years”. In passato quest’ultima dichiarazione mi avrebbe portato a giorni di solitudine e lutto, ma oggi (invecchiando) mi trovo forse più incline al lato pop del gruppo, rispetto a quello più propriamente dark: insomma, la bellezza di scoprirsi zuccherosi!
Quando parte “Last dance” abbiamo ancora la conferma di come il brano di “Disintegration” sia stato uno di quelli che più hanno impressionato durante tutto il tour; le chitarre taglienti dolcemente confuse tra le tastiere di O’Donnell ne fanno minuti da assaporare come una brioche appena sfornata (ah già, ma qui dobbiamo pronunciarla croissant!), mentre Robert Smith sceglie di passeggiare per il palco, quasi a scrutare la sua gente, cogliendo ogni briciola di energia in attesa dell’inizio della parte vocale.
Impossibile non considerare questo concerto come l’occasione di una sorta di summa del tour estivo, continuando a giocare su quali brani si siano distinti sugli altri. Di “Last dance” abbiamo già parlato, mi piace aggiungere (purchè non si offendano le altre circa trenta canzoni del repertorio) una “Disintegration” per la rara intensità interpretativa, e “Burn” nel suo incedere dark e tribale allo stesso tempo, ma anche, sul versante easy, il funk elettronico di una “The walk” che non fa prigionieri, od una “Why can’t I be you” in cui Robert Smith sembra sfidarci: “qualcuno riesce ad ascoltarla senza sorridere?”, quasi fossimo nella vecchia pubblicità delle Fruit Joy anni ’80 (solo gli over 40 capiranno).
Un gioco, il nostro, quello di riproporre un best di questo tour appena concluso che non è e non vuole andare oltre uno svago (un gioco, appunto), perché ogni concerto va vissuto ed assaporato nella sua interezza, nella sua emotività, nel trasporto della e con la massa; ed ecco, allora, che ogni brano se visto nella totalità delle 2 ore e mezzo circa di show ha una perfetta collocazione perché scelto quasi chirurgicamente dal suo autore e, come gli anelli di una catena, diventa condicio sine qua non per l’esistenza stessa di tutto l’insieme.
Poi, ma già lo sappiamo, Robert Smith si avvicina per l’ennesima volta al microfono ed annuncia l’ultimo brano in scaletta, ovvero quella “Boys don’t cry” vecchia di quarant’anni, ma giovane come una adolescente a cui piace divertirsi e sorprendersi delle proprie lacrime. A differenza di qualche tour passato (forse il 2016 più di tutti?) il congedo di stasera non lascia nodi in gola particolari o un triste senso di fine perché l’armonia e la gioia sono così forti da vincere su tutto. Rimane solo un po’ di malinconia, quella sì, non saremmo fan dei Cure altrimenti. Perché, comunque sia, è l’ultima data e presumibilmente si dovrà attendere un po’ (quel po’ che deciderà sempre e solo Lui) per rimetterci in tour con zaino e biglietto in mano. Ma fa parte del gioco. Un gioco che continua a piacerci dannatamente.
(TESTO: GIANMARIO MATTACHEO; FOTO: GIANMARIO MATTACHEO E ADRIANA BELLATO)