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DAVID BYRNE "Live Pala De André Ravenna 19-07-18"
(2018)
In un periodo estremamente vivo per quanto riguarda le manifestazioni di musica live in Italia, da nord a sud, anche David Byrne raggiunge la nostra penisola per il tour mondiale a supporto del suo ultimo album, American Utopia. Byrne non si era mai imbarcato in una tournée così lunga e stancante (oltre cento le date totali che terrà in questo 2018), ed era lontano dai palchi da un po’, se si eccettua qualche sporadico concerto tenuto tra il 2013 ed il 2016. La sua ultima grande tournée risaliva addirittura al 2009. Mai stanco e sempre sgorgante di creatività, l’ex leader dei Talking Heads, dopo essere passato per gli Arcimboldi di Milano e il Pala De André di Ravenna, toccherà anche l’Umbria Jazz Festival e infine Trieste.
Il concerto inizia puntualmente alle 21 e si apre con una chicca tratta da American Utopia, “Here”, brano che chiude il disco, lento e riflessivo ma al tempo stesso ritmato ed energico, adatto a dare il via alla serata; segue “Lazy”, un pezzo dei primi anni ’00 del duo X-Press 2, scritto proprio insieme a Byrne, che lo canta anche su disco. La band è di qualità altissima: è formata da undici membri più Byrne, e sono tutti in piedi a muoversi, correre e ballare, con gli strumenti a tracolla, la batteria distribuita “a pezzi” tra quattro persone, il synth sempre in primo piano, chitarre e basso perfettamente mixati e la comparsa qua e là di tanti strumenti non convenzionali – dal flauto a particolari percussioni da world music. Il suono è limpido e potente. Termina la seconda canzone e ciascuno spettatore ha abbandonato il proprio posto a sedere per avvicinarsi al palco. Non mancano – sono, anzi, tante, ed è un bene che sia così – le canzoni dei Talking Heads: “I Zimbra” e “Slippery People” si susseguono una dopo l’altra, creando scompiglio ed emozione nel pubblico, che le canta con trasporto e convinzione. Byrne stesso sembra particolarmente divertito e contento nel riproporre alcuni classici della band che lo ha reso immortale. Segue un altro brano di movimento e di meditazione al tempo stesso, “I Should Watch TV”, tratto dall’album che Byrne ha inciso insieme a St. Vincent. Strepitose sono anche le coreografie, le luci, la passione e la precisione che la band tutta mette nel suonare e nel ballare. “Everybody’s Coming to My House” è un altro brano che porta il pubblico a muoversi e a saltare da ogni parte, ma sono soprattutto i classici dei Talking Heads “This Must Be the Place” e “Once in a Lifetime” a sciogliere definitivamente gli spettatori: ora si alzano davvero tutti, anche quelli nelle file più lontane, e si avvicinano al palco per godersela come non mai.
La band, intanto, non lascia nulla al caso, dagli spostamenti tra un brano e l’altro al cambio strumenti; Byrne è sempre allegro ma si concede anche ad alcune serie riflessioni sociali e politiche (invita ad andare al voto perché votare serve e sempre servirà, sia come atto civile che come scelta personale, e, aggiunge sorridendo, “se ci riuscite votate anche due volte!”), intona “Doin’ the Right Thing”, sempre tratta dall’ultimo disco, come una dichiarazione di poetica e di intenti convinta e chiara, e passa poi alla scatenata “Toe Jam”, una cover dei Brighton Port Autority al cui remix Byrne aveva partecipato. Arriva poi il momento di un altro brano, “Born Under Punches”, tratto da quello che ritengo il miglior disco dei TH, vale a dire Remain in Light, uno dei capisaldi degli ‘80s, eseguito benissimo e con estrema fedeltà rispetto alla versione originale. Si susseguono poi altri brani della carriera solista di Byrne, dall’elettronica più spinta e con synth e percussioni particolarmente notevoli: “I Dance Like This”, “Bullet” ed “Everyday Is a Miracle”, tratti da American Utopia, e “Like Humans Do”, tratto da Look into the Eyeball, del 2001, un brano che riscosse, anche a livello di pubblico, un successo discreto. Due brani dei Talking chiudono il set “regolare” prima dei bis: si tratta di “Blind”, brano leggermente più ricercato nel repertorio della band di Byrne, tratto da Naked, e la più celebre “Burning Down the House”, le cui percussioni fanno esplodere il palazzetto, mentre David si appropria della chitarra acustica (durante alcuni brani precedenti aveva invece imbracciato l’elettrica, mentre per la maggioranza del tempo aveva cantato e basta). È tempo dei bis: il primo è formato da “Dancing Together”, brano scritto ed eseguito insieme a Fatboy Slim, che sembra a tutti gli effetti un pezzo deep-house, e da “The Great Curve”, altro capolavoro tratto da Remain in Light dei TH. La band esce di nuovo e rientra per ricevere una marea di applausi e per concedere il secondo e ultimo bis, un’interessante cover di un brano di Janelle Monàe, “Hell You Talmbout”, che Byrne presenta incitando il pubblico a verificarne su Wikipedia il significato. Il brano è una durissima accusa nei confronti della violenza razziale negli States; nome e cognome di alcune vittime vengono gridati da Byrne e ripetuti coralmente da tutta la band, a incendiare l’atmosfera e a rendere il pezzo sia una canzone di protesta infuocata sia una preghiera nella speranza di un cambiamento. Il concerto si conclude con una riflessione significativa e drammatica grazie a una cover sorprendente che ribadisce quanto Byrne continui a rimanere rilevante e combattente.
(Samuele Conficoni)