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BUNUEL "Live Ohibò Milano 07-05-18"
(2018)
Metti na sera ‘e maggio a Milano, periferia sud-est. Clima mite, si può stare in maglietta. Bere qualcosa fuori, mentre il cielo perde colore, prima di infilarsi in fondo alla scalinata dell’Ohibò, bel locale del circolo Arci. Scendo intorno alle nove e mezza, c’è un piccolo dehors dove intrattenersi. Un foyer a cielo aperto. Qualche metro più avanti, l’ingresso vero e proprio. Only for tonight: la porta dell’inferno.
Fanno tappa in questo spicchio di Milano, al confine fra periferia e margini del bel mondo, i Bunuel, progetto nato un paio d’anni fa dalla mente bacata e dalla chitarra assassina di Xabier Iriondo (Afterhours, Six Minute War Madness, A Short Apnea, Cagna Schiumante, Tasaday) con la partecipazione di tre accoliti ben poco raccomandabili. Ovviamente Eugene Robinson, corpulento vocalist moro noto ai più per essere frontman degli Oxbow, band di San Francisco dedita da tre decenni ad un truce terrorismo sonico à la Jesus Lizard, sebbene dal taglio più sperimentale; e la sezione ritmica formata da Pierpaolo Capovilla e Franz Valente (entrambi One Dimensional Man e Il Teatro Degli Orrori), il primo nel suo naturale e primigenio ruolo di bassista, il secondo a massacrare le pelli come da copione.
Ma prima, e nel frattempo: sotto il pergolato, in quei trenta metri quadri che vedono affluire un pubblico numeroso e mediamente agée, è raccolta una fetta di storia dell’indie nostrano degli ultimi vent’anni.
Manca Robinson, ma ci sono tre quarti della band: Capovilla su una seggiolina in disparte in un angolo del cortiletto, Valente in piedi al centro, Iriondo seduto a conversare. Arriva Giorgio Prette, seguito da Alessandro Grazian e da Roberto Dell’Era con figlioletta in braccio (povera creatura, non è luogo per la tua innocenza...). Manca solo Manuel Agnelli.
Verso le dieci Valente sparisce; un altro quarto d’ora e la seggiolina di Capovilla resta vuota, come fosse evaporato in uno schiocco di dita. Poi tocca ad Iriondo.
La musica di sottofondo all’interno della sala destinata al concerto è già assordante. C’è parecchia gente, lo spazio vitale scarseggia. E fa caldo. E c’è rumore. E ancora non è iniziato.
Alle undici meno un quarto Franz entra dalla porticina alla destra del palco e siede in postazione. Comincia a pestare con radi colpi una cadenza lenta, marziale. Entra Pierpaolo, poi Xabier. Per ultimo, elegante in giacca, imponente, con scotch nero a coprire entrambe le orecchie, macchia scura nel buio del locale, entra Eugene. Sciamanico, spettrale. Il brano di apertura, un rallentamento catacombale sventrato dalle scariche della chitarra di Iriondo, è “Boys To Men”, la traccia che apre il recente “The Easy Way Out”. Una colata di lava nera che arranca agonizzante per cinque minuti soffocanti. Rialza il tiro “This Is Love”, brano di punta dall’esordio “A Resting Place For Strangers”, subito seguita da “Happy Hour”, omologo biglietto da visita sul nuovo album.
Capovilla suona per larghi tratti dando le spalle – al più il fianco - al pubblico, Robinson inizia a spogliarsi gradualmente. Rimarrà con addosso solo gli slip e un gilet di pelle. Movenze animalesche, teatrali. Danza epilettico, come posseduto. Poi si placa. Scende in mezzo al pubblico. Mi passa ad un metro. Fa quasi paura.
Il concerto è una rasoiata in faccia, una terrificante onda d’urto di non-musica trafitta da un’elettricità nevrotica e disturbata, sulla quale si innestano il salmodiare omicida di Robinson (uno spoken-word di belluina violenza, intimamente perverso e malevolo), il chitarrismo esasperato, dissonante e avant di Iriondo ed il drumming estremo di Valente.
E’ uno stato di voluto terrore in cui il basso di Capovilla è – sic! – l’elemento più lineare fra tutti.
Di volta in volta i vocalizzi di Robinson mutano in urla, sussurri, rigurgiti gutturali, borborigmi maniacali che d’improvviso squarciano la muraglia di rumore eretta dalla band nel micidiale trittico formato da “I, Electrician”, “Dump Truck” e “Dial Tone”.
Dopo una interminabile, estenuante, singhiozzante “The Sanction” ospitano sul palco Kasia Meow – biondo fascio di nervi - per l’accoppiata demoniaca di “Me + I” e “Shot”, indi chiudono con l’esitazione morbosa di “Where You Lay” prima di lasciare lo stage.
Rientra Capovilla un paio di minuti più tardi, invita il pubblico ad acquistare il materiale disponibile al banchetto del merchandising – dove troveranno Kasia in persona - per sostenere la band. Band che non torna in scena, mentre Pierpaolo ha già imbracciato il basso e collegato il jack. “Scusate, vado un momento a vedere dove sono”, commenta ridendo mentre scompare dietro le quinte.
Altri cinque minuti e rientra la Corte. Concedono in rapida sequenza la doppietta “Smiling Faces Of Children” e l’accelerazione frenetica di “Jesus With A Cock”, chiudendo nel frastuono di una jam rumoristica che sa di definitivo.
Quarantacinque minuti. Non odo lamentele: può bastare. Quasi insostenibile proseguire, per la band come per il pubblico. Impossibile perpetuare quello stato di tensione oltre il limite invisibile già ampiamente raggiunto e superato.
Mentre usciamo nella notte, Luca commenta entusiasta che questo è “il confine del post-hardcore”.
“Cosa intendi per post-hardcore?”, gli domanda Giacomo. So già la risposta.
“Hardcore è urlare contro qualcuno – dice Luca con studiata flemma -, post-hardcore è urlare contro nessuno”.
Nelle orecchie, un fischio riecheggia lontano.
Nella mente, un disturbante senso di fastidio.
Scendiamo a prendere il metrò.
Non dormirò bene. (Manuel Maverna)