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CADORI "Live Arci L'Impegno Milano 27-04-18"
(2018)
Era più o meno la primavera del 1993: al Rolling Stone – oggi, ahimè, non esiste più - di corso XXII Marzo a Milano si esibirono tre storiche band del neonato C.P.I. nel tour di supporto alla pubblicazione di “Maciste contro tutti”, sorta di album-manifesto programmatico del sodalizio appena varato. C’erano ovviamente sia i CSI che i Disciplinata, ma l’apertura toccò agli Ustmamò di Mara Redeghieri. Ricordo che – a luci accese, con gente che vagava birra alla mano – iniziammo a sentire rumori elettronici di fondo ed un confuso, minimalista strimpellare di chitarra: ci accorgemmo solo dopo alcuni minuti che quella specie di improvvisato soundcheck faceva già parte - in realtà - dello show, e che la messa a punto di suoni, effetti, tremoli e varie altre amenità era elemento integrante del set. Un po’ come l’inizio dei sei personaggi di pirandelliana memoria, insomma.
Ecco, l’ho tirata un po’ lunga, ma questo è ciò che ho pensato mentre, appoggiato ad una colonna, assistevo al concerto di Giacomo Giunchedi, in arte Cadori, giovane artista abruzzese originario di Avezzano il cui “Non puoi prendertela con la notte” è stato album n°1 del 2017 nella classifica di fine anno di MusicMap.
Numero 1, dico: ragion per cui il sottoscritto decide di non lasciarsi sfuggire l’occasione di goderselo live, uscendo di casa – 47 primavere il prossimo 20 luglio, marito e padre di famiglia – un venerdì sera alle dieci e un quarto dopo una bella grigliata di pollo ed un buon chianti (cit.), ficcandosi in un dedalo di vie in una zona di Milano mai esplorata e non esattamente confortante per un concerto fissato per le undici (ad andar bene).
Il locale scelto è il circolo Arci L’Impegno di via Bodoni, venue decisamente curiosa ed insolita. Come dicono loro presentandosi: “un bar, una discoteca, un locale per appuntamenti, un centro sportivo: non siamo niente di tutto questo”. E’ un luogo di ritrovo fuori dal quale sventolano un paio di bandiere del PD sopra pagine di giornale affisse in bacheca.
All’interno, un piccolo bancone sulla destra, una saletta in fondo, e soprattutto i 21 metri quadri (MQ21 LIVE è la sigla che usano) della stanza nella quale si fa musica dal vivo.
Bevo un calice di rosso – costa 1€ e non è affatto male, bravi – ed esco a fumarmi una sigaretta. Poco dopo sbuca dal locale Giacomo Giunchedi al cellulare. Lo aspetto al varco prima che rientri, fatico a riconoscerlo perché ha i capelli molto più corti rispetto alle foto che girano. Ci presentiamo e facciamo quattro chiacchiere lì in mezzo alla strada, vicino alla fermata della 57. Mi parla dei Torakiki e di qualche ruggine di troppo, della lunga gestazione di “Non puoi prendertela con la notte”, di qualche nuova canzone e della scelta di mettersi da solo accoppiando esigenze artistiche e vantaggi economici (lo diceva anche il grande Mark Kozelek: “il vantaggio di andare in tour da solo è che puoi permetterti hotel migliori, non devi spendere tanto tempo a provare e puoi sperare di tornare a casa con qualche soldo in tasca”).
Ci salutiamo intorno alle undici – dài Giacomo, sono diversamente giovane, vedi di iniziare...
Il minuscolo palco è quasi interamente occupato da un banchetto sul quale stanno appoggiati una serie infinita di effetti, sequencer, una tastiera. A terra una pedaliera e la scaletta attaccata al pavimento. Cerco di sbirciare, non mi sembra di vedere “Audrey Hepburn”, ma magari è stato il troppo vino.
Alle undici e un quarto Giacomo – che si esibisce in perfetta solitudine - inizia il set con una versione scarnificata e rallentata di “Cauntri #3”: chitarra a tracolla, prima di ogni brano mulina veloce mani e piedi per accordare, alzare volumi, spegnere dispositivi, accenderne altri, pigiando pedali nella penombra. Ciascun pezzo ha così sia una specie di pre che una specie di post fatti di piccoli rumori, interferenze, abbozzi, quasi prove tecniche di suono. Un po’ come gli Ustmamò quella sera, ed è a suo modo affascinante, straniante, insolito.
Sarà la location irreale, saranno le luci basse, sarà il fumo artificiale vecchia maniera che ogni tanto invade la stanzetta, sarà il particolarissimo crooning di Giacomo – un sussurrare sofferente e intenso che nasconde le parole in una nebbia di musica dilatata, lenta, psichedelica, venata di continuo da screzi elettronici, suo punto di partenza sempre -, ma il fascino di tutto questo è quasi ipnotico.
Riarrangia in tono dimesso una stralunata “Canzone dei trent’anni”, torna fedele a sé stesso in “KFM”, ripesca “Lungo la strada” dal mini “Il demo degli alberi fuori fuoco” del 2015, offre un nuovo brano (“Elicottero”). Ha pure la balzana idea di proporre “una cover di un brano molto vecchio”, il cui titolo neppure annuncia: è la celeberrima “Cuore matto” del fu Little Tony, sfigurata in una versione scapestrata, stravolta, irriconoscibile. Spolpa all’osso anche “Quello che resta”, riacquista tono in una sontuosa “Benzina” e si infila nel cunicolo di elettronica cupa de “La brutta musica” prima di un’altra accoppiata di novità (“Qui” e “La ballata nera”). Chiude con “Guai”, una canzone che mi sta sul cazzo, dovrebbe finire a metà”.
Si/ci concede un bis, l’ennesimo rallentamento morbido a nascondere un cuore sottilmente disilluso e tormentato, connubio che connota l’arte di Cadori come la firma in un quadro.
“Ho aspettato fino all’ultimo che mi facessi Audrey Hepburn”, gli dico a fine spettacolo. “Mi spiace” – ribatte – “ma per quella mi servirebbe una band”. Mi faccio un altro calice di rosso a 1€. Compro i due cd, che Giacomo mi vorrebbe regalare, ma io l’arte la pago sempre, sia chiaro.
E’ quasi la una, esco nel dedalo di vie pregando di ritrovare la macchina. C’è.
Ho la testa in una bolla, leggera, evanescente. E non è per il vino.
Album n°1 del 2017: un motivo ci sarà. (Manuel Maverna)