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ROGER WATERS "Live Unipol Arena Casalecchio di Reno 24-04-18"
(2018)
Per il suo “Us + Them Tour”, iniziato nel 2017 con un tour nordamericano, Roger Waters tocca l’Italia con sei date totali in primavera (ce ne saranno altre due in estate, a Lucca e a Roma), due a Milano e quattro a Bologna, tutte rigorosamente sold out da mesi. La terza delle quattro nottate bolognesi è stata emozionante e non ha deluso le aspettative, inevitabilmente molto alte visto il calibro del personaggio, la scaletta del tour e l’(imprescinbile) elemento visuale, cifra caratteristica degli show dei Pink Floyd e, di conseguenza, dei suoi singoli membri. Alle 21:15, in una Unipol Arena gremita, si dà inizio al concerto: uno schermo gigante posto dietro il palco proietta durante ogni canzone animazioni di ogni tipo, da cruente scene di guerra, intolleranza e razzismo a marce per la pace, Black Lives Matter e unioni di diversità etniche e religiose. In altri casi sono proiettate le componenti visuali da sempre legate al brano d’origine, come gli orologi disegnati e animati durante “Time” o i passi inquietanti e aliena(n)ti di perfetti sconosciuti durante “Us and Them”. A colpire sono inevitabilmente le immagini più dure, chiaro elemento di denuncia da parte di Waters, che prima dei due bis darà spettacolo pronunciando un lungo monologo in cui attaccherà qualsiasi tipo di politico, banchiere e uomo di potere, pregando che queste forze maligne non si impadroniscano, un giorno o l’altro, di ogni angolo di terra e della mente di ciascun essere umano, e non distruggano la “beautiful Bologna” in cui, conclude, si è trovato benissimo e che ha visitato con estremo piacere durante le mattinate e i pomeriggi liberi.
Lo show vede prevalentemente brani dei Floyd in scaletta, con 23 pezzi totali di cui solo 4 provenienti dal repertorio solista di Waters. L’inizio è affidato a “Speak to Me” e “Breathe”, l’incipit di Dark Side of the Moon; arrivano poi, una dopo l’altra, splendide e affilate, “One of These Days” e “Time”, con meravigliose componenti video annesse, un flow psichedelico di silhouette radioattive nella prima e i mitici orologi scampanellanti nella seconda. La voce di Waters è ancora tagliente: risulta, inevitabilmente, più leggera di un tempo, ma chiaro è il messaggio e limpida la forza con la quale Roger veicola le sue idee. La band è numerosa e il livello tecnico è notevole. La ripresa di “Breathe” conduce veloce a “The Great Gig in the Sky”, dove le due coriste danno spettacolo (ma, e scusate se è banale puntualizzarlo, nulla potrà mai competere con la voce dell’originale); le parti cantate da David Gilmour sono rimpiazzate da uno dei due chitarristi, il cui timbro non è affatto male; batterista e tastierista sono qualitativamente bravissimi e il gruppo è scintillante. “Welcome to the Machine” non perde nulla della sua freddezza e del suo cinismo originari. Roger la canta con un fuoco inquieto e cattivo negli occhi: sembra voler distruggere tutto da un momento all’altro con quella sua rabbia caratteristica unita però a quella incredibile fiducia nell’essere umano che da sempre lo contraddistingue. E infatti, alla fine del brano, ecco tanti abbracci mimati, baci lanciati al pubblico, mani giunte al petto in segno di rispetto e di resistenza alle ingiustizie, poi inchini e quasi lacrime di fronte agli spettatori, 20mila voci e bocche pronte a cantare ogni parola e a non risparmiare un solo applauso. La fine della prima parte è affidata – dopo tre pezzi del repertorio solista di Waters, “Déjà Vu”, “The Last Refugee”, “Picture That”, che risultano inferiori se paragonati alle gemme floydiane, ma coerenti e godibili all’interno di questo set, anche da un punto di vista tematico – a “Wish You Were Here”, con Roger alla chitarra acustica, la voce un po’ roca e molto nostalgica, e a “The Happiest Days of Our Lives” e “Another Brick in the Wall Pts. 2 & 3”, altri tre classici tratti, questi, da The Wall. La parte del coro in “Another Brick in the Wall Pt. 2” è affidata a ragazzi dell’Antoniano di Bologna, con un metodo estremamente bello e originale che anche gli Stones adottarono a Roma nel 2014, quando la band di Jagger e Richards si servì dei ragazzi di un coro romano per “You Can’t Always Get What You Want”. Finisce “Another Brick”, i ragazzi si tolgono la tuta arancione e sulle loro maglie compare la scritta “Resist”, che viene poi fatta rimbalzare anche sui maxischermi. Resistere al capitalismo, al potere malato, alle ingiustizie: questo vuole ribadire Roger, e il messaggio del concerto è tutto lì. Ora venti minuti di meritata pausa.
E la seconda parte inizia da dove ci si era fermati. Due classici da quello che, per chi scrive, resta il più straordinario disco dei Floyd, Animals. Le canzoni in questione sono “Dogs”, eseguita tutta, oltre dieci minuti, e “Pigs”. Pilastri scendono dall’altro e srotolano ulteriori schermi; si crea la centrale elettrica di Battersea, simbolo londinese presente sulla copertina dell’LP; sugli schermi ulteriori frasi che invitano a resistere alle ingiustizie. “Dogs” brilla per maestosità e gli assoli di chitarra non sono affatto male (ma, e chiedo nuovamente scusa per l’ulteriore puntualizzazione, non si possono paragonare al tocco gilmouriano); durante la successiva “Pigs” compare Donald Trump in tutta la sua viscidità e falsità: decine e decine di frasi pronunciate da lui nel corso dei mesi e degli anni – tra razzismo, omofobia, intolleranza – culminano, alla fine del pezzo, con la frase – in italiano – “Trump è un maiale”. Boati del pubblico. Parte “Money”, il chitarrista canta le parti di Gilmour e un sax delizioso ci riporta alle atmosfere di Dark Side, che proseguono immediatamente con la successiva “Us and Them”, eseguita con una precisione e una lucidità cristalline. A “Smell the Roses”, a mio parere il miglior pezzo dei quattro del suo repertorio solista, potentissimo e crudele, seguono “Brain Damage” ed “Eclipse”, che simmetricamente rimandano ai primi due brani dello show, e suggellano lo spettacolo incorniciandolo all’interno di Dark Side: una piramide formata da luci e laser bianchi e blu rimanda al prisma della copertina del celebre LP, e all’interno di questa piramide troneggia Waters, che ora, prima del bis, aizza le folle e si lascia a qualche commento politico: critica i magnati del denaro, i politici (Trump, Macron, Theresa May), le istituzioni e, dopo essersi sfogato e aver presentato la band, si concede ai bis, “Mother” e “Comfortably Numb”, entrambi tratti da The Wall. Roger dedica il primo a sua madre e, quando arriva il verso “Mother, should I trust the government?”, sugli schermi giganteggia, in risposta, la frase “COL CAZZO”, tra scrosci di applausi e risate da parte del pubblico. Finisce “Mother” e subito parte “Comfortably Numb”, il suo inconfondibile attacco in Si minore, semplicemente sublime. Roger e il chitarrista si alternano cantando l’uno le strofe e l’altro, in vece di Gilmour, i ritornelli. L’assolo di chitarra conclude lo show, durato quasi due ore e mezza, che conferma Waters come uno dei più grandi rocker di sempre, uno che continua a lottare, con le unghie, i denti e, soprattutto, la musica, affinché la situazione non ci sfugga (definitivamente) di mano e il mondo diventi sempre di più una tremenda roulette russa tra i potenti.
(Samuele Conficoni)