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GIRLS IN HAWAII "Live Magnolia Milano 19-04-18"
(2018)
E’ una serata qualsiasi al Circolo Magnolia, enclave ben protetta dell’Arci tra l’Idroscalo e l’aeroporto di Linate, per chi conosce Milano una sorta di avamposto di confine tra la campagna e le zanzare. Un giovedì sera di un aprile diventato improvvisamente caldo e infido dopo mesi di freddo pungente si esibiscono per una delle quattro date italiane i Girls In Hawaii, sestetto belga tra i segreti meglio custoditi di una scena indie internazionale nascosta tra le pieghe di una melanconia garbata e composta.
Band inclassificabile, parca e schiva nelle sue sporadiche uscite discografiche, vive in una nicchia che ha allevato un seguito fedele e devoto nei soli quattro album e quindici anni di una carriera la cui parabola è stata indelebilmente segnata dalla tragica scomparsa del batterista Denis Wielemans – fondatore del gruppo insieme al fratello Antoine, uno dei due cantanti – in un incidente stradale nel maggio del 2010.
Non siamo più di centocinquanta nella sala grande del Magnolia quando alle dieci e mezza attaccano il set con una “9.00 am” a quattro chitarre, insolito incipit per chi ha fatto di un sottile intimismo raccolto il proprio marchio di fabbrica; propongono naturalmente estratti dal recente “Nocturne”, tra cui una deliziosa “Indifference” all’inizio ed una pulita “Walk” in coda (“E’ il nostro solo brano ballabile, quindi vi conviene approfittarne”, scherza Antoine), saccheggiano il dolente “Everest” del 2013 con una fragorosa “Switzerland”, un’altrettanto tirata “Not Dead”, un’applauditissima “Misses” ed una ribollente “Rorschach” con Antoine che imbraccia l’elettrica in luogo dell’abituale acustica. Omaggiano il meraviglioso “Plan Your Escape” in “Birthday Call” e “Sun Of The Sons” prima di offrire una versione torrenziale di “Time To Forgive The Winter” da far tremare i muri, magistrale atto di forza sparato di nuovo a quattro chitarre a volumi assordanti, tra dissonanze urticanti e controtempi a singhiozzo.
Verso la metà dello show Antoine saluta e ringrazia in inglese, lamentandosi simpaticamente per il divieto di balneazione nell’Idroscalo che nel pomeriggio gli ha impedito di farsi una nuotata. Chiede al pubblico il motivo, domanda se sia per questioni di inquinamento: le prime file annuiscono ridendo, qualcuno suggerisce che sia a causa delle zanzare, Antoine constata che in effetti Bryan, il batterista, ha mezza faccia rossa per quel motivo. In coda ad una toccante versione di “The Fog” cantata da Lionel, Antoine passa al basso per la breve sberla strumentale – quasi un divertissement – di “Road To Luna”, prima che Francois Gustin prenda la parola per salutare e ringraziare pubblico e staff in un italiano fluente che suscita una mezza ovazione.
Nei bis infilano una versione concisa e fragorosa del classico “Flavor” – solitamente dilatata oltre i sette/otto minuti e qui contenuta da un arrangiamento secco e incisivo – e la nuova, avvolgente “Guinea Pig”, suonata con qualche problema di accordatura delle chitarre, affidando la chiusura alla rispettosa cover di “AM 180” dei Grandaddy, omaggio sincero ad un’influenza mai negata.
Lontani anni luce da atteggiamenti divistici o eccessi di qualsiasi tipo, i Girls In Hawaii sono semplicemente questo: una band capace di muoversi con classe, stile, garbo ed intensità in un milieu di introversa melanconia che sa accarezzare e cullare, ma anche – all’occorrenza – deflagrare in nubi di elettricità satura e corrosiva.
Ho letto che la sera successiva a Torino nei bis hanno proposto “Plan Your Escape”: per chi c’era, sappiate che vi invidio moltissimo. (Manuel Maverna)