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BOB DYLAN "Live Auditorium Parco della Musica Roma 03/04-04-18"
(2018)
Inizia con tre concerti nella meravigliosa Sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma la tranche di concerti italiani del Bardo di Duluth, l’immenso Bob Dylan, sempre on the road e sempre pronto a stupire. Era partito il 22 marzo da Lisbona, poi Salamanca, poi ancora tre serate a Madrid e due a Barcellona: sette show che avevano avuto variazioni di scaletta minime - normalità dal 2013 a oggi - e ben pochi standard - i brani del “Great American Songbook” che Dylan ha registrato negli ultimi tre album in studio tra 2015 e 2017 - al loro interno. Roma freme per l’attesa e vuole ricevere il Bardo con la dovuta reverenza e l’inevitabile eccitazione. Poster, volantini, articoli sui quotidiani cartacei e online amplificano l’atmosfera magica che si respira.
Siamo in tanti - ci sono anche io, che ho assistito ai primi due concerti romani e sarò anche a Mantova, Milano e Verona - ad assediare i cancelli esterni della struttura e il retro della sala, al culmine di una salita, già nel pomeriggio del 3, aspettando che magari il Nostro scenda da una vettura con i vetri oscurati e, anche solo di sfuggita e da lontano, attorniato da qualche guardia del corpo, ci faccia un cenno. Qualcuno l’ha poi intravisto, qualche ora prima dell’inizio dello show, con la classica felpa e l’immancabile cappuccio, proprio come quando il 1º aprile 2017 ritirò, in una cerimonia privata, il Premio Nobel per la Letteratura in una stanza d’hotel di Stoccolma, dove incontrò i membri dell’Accademia, li ringraziò e suonò qualcosa per loro, rigorosamente lontano da telecamere e obiettivi fotografici. Riservatezza e privacy sono le parole d’ordine di Dylan, 77 anni il prossimo 24 maggio, che preferisce lasciare parlare la sua arte sul palco. Ma basta con le solite banalità: arrangiamenti stravolti, mai un “grazie” al pubblico, pochi classici... Questi elementi sono caratteristiche che Bob ha abbracciato già da molti anni: non rappresentano né una novità né una stranezza. Giudicare o descrivere un genio come Dylan attraverso queste etichette, come molti fanno, è semplicemente ridicolo. Egli ha sempre scelto e sempre sceglierà, finché vivrà, un percorso netto tracciato unicamente dalla sua arte e non dalla sua persona. Lui è il cantore ispirato dalla Musa, il poeta errante che ha scelto, dal 1988 a oggi, di passare quasi un terzo dell’anno tra palco e bus. La sua non è una missione ma una passione: non deve rendere conto di niente a nessuno, e se qualcuno non lo ha ancora capito non possiamo farci niente.
Ma passiamo agli show del 3 e del 4 aprile. Dylan è sempre al pianoforte, a volte seduto altre volte in piedi, tranne che per i tre pezzi sinatriani (e, la seconda sera, anche per “Long and Wasted Years”, l’ultimo brano prima del bis), dove sta in piedi a danzare con l’asta inclinata di 45º. Non suona l’armonica, non suona la chitarra. In bianco la sera del 3, in nero la sera del 4. Le scalette sono state identiche per entrambi gli show, con le uniche variazioni legate alla posizione di alcuni brani. Il primo show, quello del 3 aprile, ha mostrato subito quanta solidità abbia il sound di questa band, che ormai da anni segue Bob ciecamente e con un amore e una fiducia per lui irriducibili. Il secondo ha confermato quanto la band si diverta a suonare questi pezzi, divertimento che era risultato chiarissimo anche nei tre show a cui avevo assistito nel 2015, quello di Lucca e i due bolognesi, e anche negli anni precedenti, già dal primo live che ebbi la fortuna di vedere nel lontano 2006.
Il palco è illuminato quanto basta, e Dylan, oltretutto, non disdegna il buio durante certe fasi dello spettacolo. Ad aprire lo show è “Things Have Changed”, la canzone che gli è valsa Golden Globe e Oscar (l’Oscar è presente da anni, forse una riproduzione, sopra uno degli amplificatori sul palco, accanto a un busto in marmo raffigurante la Poesia) nel 2001, splendida nella sua precarietà e nel suo pessimismo, con alcuni accordi molto diversi rispetto alla versione originale. Il primo classico è servito. A esso ne seguono altri tre: “Don’t Think Twice, It’s All Right” è dolcissima e sussurrata entrambe le sere, un pianto, sì, ma cinico e accusatorio; “Highway 61 Revisited” brilla e fa saltare dalla sedia per quanto è aggressiva; e “Simple Twist of Fate” è lenta, triste, con un ulteriore verso modificato che si aggiunge alle modifiche già apportate al testo nel 2013, ed è stato ancora più perfetto la seconda sera rispetto alla prima. Poi iniziano i blues sfrenati: una ruvida “Duquesne Whistle” e una tagliente “Honest with Me” sono intervallate dal primo brano sinatriano, “Melancholy Mood”, cantato molto bene da Bob al centro del palco. “Trying to Get to Heaven” risulta ancora più disillusa e ironica di quanto non sia su disco, dove appare invece più disperata. Ancora un’interpretazione crooner molto convincente in “Once Upon a Time” anticipa una spietata e cattivissima “Pay in Blood”.
Bob ha una voce roca e affilata, che quasi recita ogni verso, interpretandolo e dosandolo con un trasporto e una profondità unici, e che riesce a esplorare ogni stato d’animo e a “riscrivere” a tutti gli effetti le sue canzoni del passato: si prenda, ad esempio, “Tangled Up in Blue”, che ha assunto, già nel tour autunnale statunitense del 2017, una nuova veste, sempre diversissima dall’originale, e che il pubblico apprezza tantissimo: scrosciano applausi da ogni lato della sala e gli spettatori sembrano seguire e abbracciare il discorso artistico di Dylan con estrema sincerità e reale interesse, nonostante il materiale (ossia le sue canzoni) siano spesso complicate ed ermetiche e sempre piene di riferimenti ostici (dalla poesia al cinema, dal rock al folk, dal gospel al jazz, dalla storia “a tutto tondo” alla storia sociale e culturale). “Early Roman Kings”, da “Tempest”, è straordinaria entrambe le sere, uno di quei pezzi capace di farti domandare all’artista come gli sia stato possibile raggiungere un equilibrio così perfetto tra melodia e parole. Arriva anche “Desolation Row”, altro classico dei ‘60s, cantata benissimo entrambe le sere, più spezzata la prima sera, più recitata e sciolta la seconda sera. “Soon After Midnight” - suonata più avanti nella scaletta del secondo show - è dolce e cantabile quanto lo è sull’album “Tempest”, mentre “Love Sick” è, da ormai tanti anni, il brano più riuscito ed epico dell’intero set. La band segue ciecamente Bob, che al piano esegue le sue “triplets” e canta il brano in maniera molto sentita. Nel blues sfrenato di “Thunder on the Mountain” c’è anche tempo per un assolo di batteria, mentre Dylan canta ogni verso a velocità supersonica e con grande autorevolezza. “Autumn Leaves” è l’ultimo pezzo sinatriano: Bob lo canta con l’asta piegata e accenna qualche gesto con la mano sinistra. Arriva poi la sublime “Long and Wasted Years”, poesia allo stato puro, levigata e sentita: nella sera del 3 Bob preferisce cantarla suonando il piano, mentre nella sera del 4 la canta al centro del palco, impugnando l’asta e allungando ogni sillaba. Il bis è ormai un marchio di fabbrica: la folla in platea si alza e va sotto al palco pronta a cantare con Dylan “Blowin’ in the Wind”, in un arrangiamento che è lo stesso da molti anni, e infine “Ballad of a Thin Man”, aggressiva e schietta, della stessa potenza rispetto all’originale. Bob se ne va dopo un breve inchino, lancia qualche bacio la prima sera mentre saluta con la mano soltanto la seconda. I primi due show del tour italiano del 2018 hanno mantenuto le aspettative. Buon divertimento a chi stasera sarà ancora a Roma per il terzo e ultimo concerto della Capitale - nell’attesa che Bob tocchi anche le altre città della nostra penisola.
(Samuele Conficoni)