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EDDA "Live Serraglio Milano 17-03-17"
(2017)
La netta, vivida, nitida sensazione che ho provato al cospetto del signor Stefano Rampoldi, in arte Edda, durante il concerto al Serraglio di Milano è stata quella di trovarmi di fronte ad un artista alieno, corpo e mente inquilini di un altrove così vicino, così lontano.
Mentre siamo in coda fuori dal locale, il mio amico Luca ed io, fede al dito, padri di famiglia, scambiamo qualche parola con due giovani signore dietro di noi. Fede al dito pure loro, parlano dei figli e della scuola. Bello: l’età media degli astanti non è verde, e mi fa piacere notare fra il pubblico più di una testa ingrigita, anche noi vecchietti ricominciamo ad uscire, vedo.
Il locale si riempie poco a poco nella penombra, non sembriamo molti all’inizio, ma finiremo pigiati come sardine in un caldo quasi soffocante. Il prezzo del biglietto è perfino troppo basso, bene così ma non diciamolo in giro. Intorno alle dieci sale sul palco in solitaria Luca Cascella, in arte Elso, copricapo di pelliccia bianco ed una provvidenziale umiltà al servizio di tracce fra Niccolò Contessa e Max Gazzè, o forse fra Jacopo Incani e Riccardo Sinigallia, poco importa: è umile, sboccato, vitale, emana un’energia sovraesposta e sinistra che il pubblico dimostra di apprezzare.
Terminato il set di Elso, pochi minuti prima delle undici gli altoparlanti iniziano a diffondere ad alto volume le note di “Due ragazzi nel sole” dei Collage. E’ la bizzarra intro scelta da Edda, che mentre guadagna il palco – giacca a vento e zainetto sulle spalle – la canta a squarciagola con sincero entusiasmo. Con lui come di consueto Luca Bossi a basso e tastiere e Fabio Capalbo alla batteria, ai quali si aggiunge alla seconda chitarra Francesco Capasso degli Adam Carpet.
Prevedibilmente incentrato sugli ultimi due album, il set si apre morbido con “Il santo e il capriolo”, traccia che chiude “Graziosa utopia”, e prosegue alternando brani del nuovo lavoro e canzoni tratte da “Stavolta come mi ammazzerai?”, la sberla di rock slabbrato che tre anni fa lo ri-proiettò – scheggia impazzita - in una sorta di olimpo rovesciato del cantautorato italico, lui che sbraita e verseggia fra idee sporche ed una scrittura sghemba e che cantautore lo è forse solo di fatto. Scorrono in ordine sparso “Benedicimi” e “Signora”, “Un pensiero d’amore” - che ricorda l’ultimo Battisti – ed una versione da brividi di “Spaziale”, canzone che apre “Graziosa utopia” e che Edda esegue da seduto, sottolineandone la difficoltà tecnica e ricordando i vani tentativi compiuti negli anni da Fabio Capalbo per portarla in gara a Sanremo (vi giuro, sono serio, non sto scherzando!). E ancora “L’innamorato”, dal “Semper biot” di esordio, e “La liberazione” (che significato avrà poi ‘sto cavallo bianco? Boh…), le sassate di “Stellina” e “Bellissima”, la placida oasi di “Tu e le rose” e la rasoiata di una “Pater” strabordante prima che una furiosa “Coniglio rosa” chiuda temporaneamente il set.
Di solito dico un po’ di cose, ma stasera devo restare concentrato, perché siete in tantissimi, scherza l’ex-ragazzo di cinquantaquattro anni, quello con una voce da far impallidire Chris Cornell, quello che raggiunge note impossibili senza strapparne - men che meno sbagliarne - una, quello che alla sua tenera età dà fondo a tutto, e così sia. Mi raccomando, alla fine del concerto lì ci sono i miei dischi, comprateli, così le prossime canzoni ve le faccio ancora più corte. Poi mi fermo, vi firmo tutto quello che volete, trova ancora il modo per gigioneggiare alla sua maniera bislacca, con quella faccia un po’ così, tra l’elfo e il dannato. Ma è più elfo oramai Edda, anche se di cicatrici invisibili a occhio nudo ne deve avere ancora parecchie: è forse pacificato, questo sì, almeno a giudicare dal tono ammorbidito – nella forma, non sempre nella sostanza – di “Graziosa utopia”, nuova pagina nello stesso libro di sempre.
Rientra da solo per i bis, si lamenta perché gli hanno scritto la scaletta troppo in piccolo e non riesce a leggerla bene, lancia una frecciatina a Milano, prima di eseguire – solo e seduto – proprio una versione di “Milano” di intensità quasi insostenibile, due minuti di inferno, repulsione e disfattismo risollevati da quel verso finale che sa di effimera redenzione e blanda speranza di qualcosa. Altri tempi, quelli di “Milano”, l’incipit della seconda vita artistica di Edda, che celebra la rinascita nella melodia stralunata di “Saibene”, con un testo amaro e desolato, fatalista e serenamente rassegnato, autobiografico e disilluso, chiuso proprio sostituendo il verso finale con la traduzione in milanese, “chi dice la verità se ciama minga Rampoldi”. L’accoppiata basterebbe per nobilitare i titoli di coda, ma ce n’è ancora: dai, non cambio neanche accordatura, la faccio così come viene, borbotta Edda prima di lanciarsi nelle due mitragliate di “Mademoiselle” e “Dormi e vieni”, in effetti un po’ scentrate e caotiche, ma a nessuno importa e va bene, va bene così.
Saluti in un tripudio, con invito al mixer: mettigli i Collage, mettigli i Collage, che non li conoscono!
E non si può nemmeno parlare di un bel concerto: Edda è più di una scaletta, di un disco, di una canzone. E’ qualcosa di indefinibile, inclassificabile, incatalogabile, il più classico esempio di come l’insieme sia differente dalla somma delle sue parti. Arriva, sorride, suona, canta come nessuno sa fare, ringrazia e se ne va.
Un minuto più tardi è già sicuramente nel suo altrove. (Manuel Maverna)