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THE CURE "Live Wembley Arena Londra 03-12-16"
(2016)
Ecco l’ultimo atto di questo lunghissimo tour mondiale. Numeri alla mano, è stato un tour realmente imponente. A partire dai quasi ottanta concerti sostenuti dalla band, passando per tutti i continenti toccati, senza considerare le città e capoluoghi che hanno visto Robert Smith ed i suoi Cure suonare ogni sera. Insomma ci sentiamo di ribadire che mai come quest’anno gli inglesi hanno posto in essere qualcosa di fisicamente importante; sforzi e dedizione che meritano un cenno prima che si accenda la corrente. Prima che parta la musica. Un ultimo pensiero anche per i Twilight Sad, pronto a diventare un sincero in bocca al lupo per il futuro di questa band scozzese che ha accompagnato i Cure in lungo ed in largo per il globo. Dopo averli snobbati, ho iniziato ad entrare più seriamente nel loro sound, arrivando ad apprezzarne realmente le esibizioni. In particolare, con le ultime londinesi The Twilight Sad hanno spaccato per davvero, dimostrando anche ai diffidenti della prima ora (io) che ci sanno fare. Ma ora basta. È tempo di parlare dei Cure. Il concerto di stasera è vissuto con un misto di gioia e amarezza; è un concerto, ma è anche un ultimo atto. Il dubbio a molti sorge spontaneo: ultimo di un tour o qualcosa di più? Dubbi che sono alimentati dalle condizioni di Robert Smith, la cui voce ha dato segnali di cedimento negli ultimi concerti. A sostegno di quanto detto sopra, ricordiamo che nello strabiliante concerto di ieri, il grande leader aveva rinunciato a certi acuti, sapendo che le sue condizioni attuali non gli avrebbero permesso lo sforzo (“Prayers for rain”, soprattutto). Oggi l’apertura è per “Open” a cui fa seguito (tutto in fila) più di metà dell’album “The head on the door”: “Kioto song” (apprezzatissima), “A night like this”, “The baby scream”, “Push” (solita grande festa di sorrisi e partecipazione), l’hit “Inbetween days” e “Sinking”, sono un importante omaggio all’album targato 1985. Della prima parte del concerto, gli assi da novanta sono rappresentati da “If only tonight we could sleep” e da una energica “One hundred years”, prima che “End” concluda il main set. Il primo rientro mette insieme dark e sentimento, quando le liriche toccanti di “It can never be the same”, lasciano il posto al fumetto di “Burn” ed infine all’inno di “A forest” (nella migliore versione di quest’anno); tre canzoni in un equilibrio perfetto. Ancora un rientro (questa volta meno introspettivo) quando “Shake dog shake”, “Fascination street”, “Never enough” e “Wrong number” fanno saggiare chitarre potenti alla Wembley Arena. Quindi, quando il concerto volge verso il termine, pubblico e band si preparano all’ultimo momento di questo tour, mentre gli ultimi encore sono pronti per essere suonati. Ammetto una commozione sul finale, con lacrime che tiro indietro (perché qualcuno mi insegnò che i ragazzi non piangono, dopotutto) quando Robert Smith si avvicina al microfono mettendosi completamente a nudo di fronte al suo pubblico. Con una gola che non gli permette quasi di parlare, saluta e si dichiara, comunque, fortunato ad essere qui. L’immagine di un uomo, prima ancora dell’artista; un uomo esausto, stanco e felice allo stesso tempo è una delle emozioni più forti che il grande cantante e chitarrista mi abbia mai regalato. Dopo partono gli ultimi pezzi e, quasi a contraddire l’immagine appena offerta, Robert Smith canta a squarciagola (immaginiamo solo lontanamente gli sforzi): da “Lullaby” a “Close to me”, a “Friday I’m in love” (credo che durante questo pezzo per Robert il male alla gola si fosse tramutato in dolore puro), passando per “Freakshow” e “Why can’t I be you”, la band suona con la spontaneità di ventenni debuttanti. E poi le ultime canzoni, quelle scritte quando gli anni ottanta erano solo un miraggio. “Three imaginary boys” e “10.15 Saturday night” aprono il campo a quella “Killing an arab” che ormai tutto il pubblico attende. La voce di Robert c’è fino in fondo. E anche se non ci fosse… e chi se ne frega: ciascuno avrebbe regalato comunque un po’ delle proprie corde vocali al grande capo. In una bolgia infernale nessuno rimane seduto. Dal palco, tra i musicisti, partono i sorrisi e quelle occhiate che vogliono dire “E’ fatta!”, ed infine spazio soprattutto a lui che compie l’ennesima passerella per dare un ultimo saluto ai suoi. Poi si avvicina al microfono: “See you again”. …Ed allora non è finita. (TESTO: GIANMARIO MATTACHEO; FOTO: GIANMARIO MATTACHEO E ADRIANA BELLATO)