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   (2024)


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   (2024)

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recensioni concerti

FLAVIO GIURATO   "Live Chiostro Bistrot Milano 24-09-16"
   (2016)

Ciò che fa di un disco un’esperienza unica è la possibilità che ti concede di lasciarsi utilizzare ogni volta che vuoi, nel salotto di casa, in auto, mentre cammini, prima di dormire. Un disco ti dona la chance di replicare un’emozione all’infinito. Nel caso di uno spettacolo, si tratti di un balletto, una rappresentazione teatrale, un concerto, la magia è istantanea, e può svanire come la carrozza di Cenerentola allo scoccare della mezzanotte. Ciò che rende memorabile un concerto è forse allora la sua capacità di regalare una nuova emozione anche al solo ricordo dell’evento cui si è assistito. E’ possibile replicare anche questa emozione? Nel mio caso, parlando del concerto (aperto dal cantautore toscano Lucio Corsi) di Flavio Giurato al Chiostro Bistrot di Milano, splendida location all’interno del Museo Diocesano in zona Ticinese – uno dei regni della movida meneghina – direi di sì. Un uomo sta solo sul cuore di Milano, uniche armi una chitarra, una voce, il pensiero. Nel suo crooning bizzarro e strampalato, fatto di scatti improvvisi, versi ripetuti come in un mantra, grida repentine, mormorii sommessi, accenti, pause, questo impossibile bardo dai capelli bianchi narra storie spezzate e ricomposte in fogge inusuali, svela senza dire. Accosta immagini a sensazioni altrui, lascia parlare – sibillini – personaggi in cerca d’autore, ricompone vicende muovendo da dettagli. Evoca suoni, colori, rumori, odori perfino, li impasta, li rimastica, assembla e ricombina. Mescola inglese, francese, dialetti, frizzi&lazzi, mutando la concezione di cantautore in una forma d’arte inafferrabile, un personale grammelot che si pasce di frammenti e dipinge scenari sì improbabili, ma assurdamente realistici. Davanti ad un pubblico composto, attento e partecipe, Flavio sciorina in un’ora e mezza di strabordante, stralunata intensità, una piccola fetta del suo repertorio, un corpus di canzoni che attraversano in sordina quasi quarant’anni di vita e di musica, lontano dai riflettori, dai clamori, dalle spinte del mercato. Una carriera, la sua, fatta di pause infinite e di improvvise riapparizioni, una creatività mai lineare, come il suo modo di scrivere e (forse) di riflettere. Pesca dal passato e dal presente, Flavio, addirittura dal futuro, proponendo due nuovi brani eccellenti incentrati sulla Digos e su Ugo Forno (eroico pischello dodicenne nella Roma di fine guerra), canzoni solide e importanti che confluiranno in un album prossimo venturo (“Ne ho fatti tre in analogico, vorrei farne tre in digitale”, scherza Flavio). Offre una tesissima interpretazione di “Centocelle”, una vibrante di “Silvia Baraldini”, due perle inestimabili come “Praga” e “La giulia bianca”, interpreta con sentimentalismo sui generis la dolce “Marco e Monica”, omaggia il capolavoro dello scorso anno con una “La scomparsa di Majorana” da brividi, con il divertissement agrodolce de “La grande distribuzione” e con la opprimente aria in minore di una “In caso di cura” meritevole di essere annoverata a buon diritto fra le gemme più preziose del tesoro che porta in dote. Di tanto in tanto scherza, sorride, spiega, ricorda, racconta. Sempre con garbo. Chiude – stanco, divertito, appagato - sulle note de “Il manuale del cantautore” e sul minuto e mezzo de “Il tuffatore”, suo classico per eccellenza. Si alza con stentata lentezza, quasi barcollante, forse indolenzito dalla postura tenuta, raccoglie le ultime coccole di un pubblico devoto, familiare, intimo. Impacchetta le sue poche cose, si siede ad un tavolino poco distante, beve un bicchiere, fuma una sigaretta, mentre fuori dal locale impazza già la meglio gioventù schiamazzante di un qualsiasi sabato sera milanese. Lui è Flavio Giurato, ha solo una chitarra, una voce, il pensiero. Ha 67 anni, ma non ha età. (Manuel Maverna)