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BLONDE REDHEAD "Live Anfiteatro del Vittoriale Gardone Riviera BS 22-07-2016"
(2016)
Nella cornice unica ed inimitabile dell’anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera i Blonde Redhead fanno tappa per la penultima delle cinque date del mini-tour italiano che li vede riproporre integralmente il seminale “Misery is a butterfly”, album del 2004 che resta probabilmente a tutt’oggi il vertice insuperato della loro produzione. Per l’occasione la band si avvale, in aggiunta alla storica line-up formata dalla vocalist e multi strumentista giapponese Kazu Makino ed ai fratelli Amedeo e Simone Pace, di un quintetto d’archi, aggiunta che mira ad arricchire ulteriormente le trame dell’album, intriso di una melanconia sfuggente e trascendente. La band giunge sul posto poco prima delle nove, ma lo show, il cui inizio è previsto per le 21:15, slitterà di circa mezzora per consentire l’accesso alla venue dei non pochi spettatori rimasti imbottigliati nel traffico della gardesana. Al calare della sera, mite e serena quanto basta per regalare la giusta atmosfera allo show, i rintocchi tremanti di “Elephant woman” aprono le danze, tra qualche problema col mixer ed un avvio vocale imperfetto di Kazu. Ritrovato l’essenziale equilibrio, la band sciorina l’atteso repertorio distillando classe sopraffina in un continuum che si snoda morbido e sottilmente sofferente in un profluvio di tonalità minori, controtempi ed effetti. Il falsetto singhiozzante di Kazu, sempre ad un nonnulla dalla stonatura eppure a suo modo perfetto nel veicolare gli intricati arabeschi disegnati dalla chitarra di Amedeo, screzia impietoso la melliflua tristesse di un album che trasuda un abbandono quasi mistico nella sua insistita ricerca di armonie trasognate ed ondivaghe. Amedeo stenta ad innalzare il suo filo di voce al di sopra del muro di tragico intimismo di una “Falling man” di opprimente intensità: rispetto alla versione originale, la canta cambiando gli accenti per bypassare qualche problema di estensione vocale, ma senza sottrarle un’oncia della meraviglia che la pervade. Senza sbalzi né impennate, giocando come da copione sulle minuscole, graduali scosse emotive generate dall’ininterrotto fluire di arie desolatamente carezzevoli, Kazu, che ondeggia sinuosa fra tastiere, basso e campionatore, regala la malìa suadente di una “Melody” che varrebbe da sola l’intera serata, almeno insieme alla nenia fuggevole di una “Messenger” nella quale Amedeo ritrova il suo esile, flebile sussurro agonizzante finalmente libero di trafiggere l’ennesimo requiem in minore. Sul passo sbilenco e indolente di “Pink love” la band esce di scena dopo appena cinquanta minuti, rientrando quasi immediatamente per i bis, aperti dalla ossessiva cavalcata motorik di “Mind to be had”, tratta da “Barragàn” del 2014, e proseguiti con le nuove tracce “Three o’clock” e “Golden”. Salutati da un’ovazione, band ed archi lasciano di nuovo il palco, non prima che Kazu ed Amedeo si siano brevemente consultati tra loro, quasi in segreto. Sarebbe la fine, ma il pubblico non accenna a sfollare. Senza gli archi, che restano a guardare dietro le quinte, i tre rientrano per il commiato, invitano gli astanti ad alzarsi in piedi e a radunarsi sotto il palco, ed offrono infine una tesissima interpretazione di “Equus”, il brano conclusivo di “Misery is a butterfly”. Dopo poco più di un’ora e un quarto di spettacolo, abbandonano il palco fra gli applausi, concedendo finalmente un timido sorriso ed un compunto ringraziamento. Concerto che ha condensato nella sua satura brevità tutta l’immensa arte di una band con pochi eguali, mostrando impietoso l’inessenzialità dell’apporto degli archi, i quali ben poco aggiungono ad intarsi già di per sé sufficienti ad innervare di straziante languore brani di rara perfezione stilistica. Rimane consistente l’abituale impressione di algida compostezza, un certo snobismo affettato, una superba eleganza formale fatta di quel distacco blasé che mantiene le distanze da un pubblico capace comunque di tributare un consenso partecipativo ed entusiastico. (Manuel Maverna)