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FONTAINES DC "Live Alcatraz Milano 04-11-24"
   (2024)


THE CURE "Live Troxy Londra 01-11-2024"
   (2024)

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recensioni concerti

SUN KIL MOON   "Live Carroponte Sesto San Giovanni 09-06-2015"
   (2015)

E’ una serata di clima mite e cielo minaccioso, quella che accoglie Mark Kozelek ed i suoi Sun Kil Moon per l’ultima data italiana del tour di supporto a “Universal Themes”, album pubblicato lo scorso 2 giugno ad un anno e mezzo di distanza da “Benji”. Mentre Steve Shelley – dico: Steve Shelley dei Sonic Youth! – si aggira placido, mani in tasca, camicia a scacchi, occhiali tondi e capelli grigi, fra i dintorni del palco ancora deserti (a tre quarti d’ora dall’inizio siamo in quindici), mr. Kozelek se ne sta occultato in un improvvisato backstage secondario allestito ad una estremità della grande struttura di metallo rosso del Carroponte. Lo vedo in lontananza, nascosto dai tendoni neri, mentre chiacchiera con membri della crew o riceve sporadicamente qualche temerario fan spintosi fin là e pronto a sfidare ire & collere varie & impronosticabili del Nostro, il quale cazzeggia, beve acqua minerale, attende. Poco oltre le nove e mezza – l’area antistante lo stage è ora sufficientemente gremita, e meno male – Mark e i suoi lasciano l’anfratto e salgono sul palco, allestito con una strumentazione a dir poco insolita: due batterie (Steve Shelley e Mike Stevens) e due chitarre (Neil Halstead – già Slowdive e Mojave 3 – e Dave Divine), alle quali va aggiunta un’altra ridottissima batteria (un timpano e un ride) sistemata al proscenio, davanti a tutto. Mentre i 4/5 della band prendono posto, il quinto elemento – il signor Kozelek – si ferma proprio alla piccola batteria, si toglie dalle spalle lo zainetto da boyscout, si china a raccogliere una bacchetta: attende la frase introduttiva di Halstead, poi inizia a pestare sul timpano, di fatto dettando il ritmo. Parte un’esecuzione da brivido, tesissima ed incombente, di “Hey you bastards I’m still here”, seguita dalla breve, trasognata “Mariette”, entrambi brani tratti dall’album coi Desertshore dell’amico Phil Carney. Singolare come dopo i primi due pezzi passati dietro al timpano, Mark canti i due successivi a guisa di tradizionale crooner d’antan: si leva il giubbotto, lo rimette quando vede che il cielo promette pioggia (“It’s not raining... not yet”), lo toglie definitivamente, infila una mano in tasca, brandisce il microfono come un incrocio fra Michael Bublè e Massimo Ranieri, e ricomincia il canto. La voce è stentorea, la band macina come di dovere, Mark saluta appena prima di rituffarsi in una interminabile ancorché palpitante “Michaeline”, seguita da una dilatata – si direbbe infinita – versione di “Carissa”, volta in gradevole tonalità minore nella strofa ed occasione per coinvolgere addirittura il pubblico in un call-and-response corale durante il ritornello. Mark gigioneggia con gli Italiani, sfotte un corpulento tizio della sicurezza (“He’s my Italian bodyguard, he protects me from my stalkers, he’s fucking tough”), litiga costantemente con i cavi e con l’asta del microfono, imbraccia finalmente l’elettrica per una clamorosa, violentissima ed ispirata “Richard Ramirez died today of natural causes” che satura l’aria di una elettricità debordante, prima di concedere spazio alla nuova, baldanzosa “The possum” ed alla litania introspettiva di “I watched the film the song remains the same”, accorciata intorno agli otto minuti. Passa abrasiva la sberla squadrata di “Ali/Spinks 2” col suo intricato inciso, scuote l’audience una “Dogs” cattiva come non mai, placa gli animi la dolcezza della teneramente depressa “I can’t live without my mother’s love” (con Mark che apostrofa – ma gli scappa da ridere – qualche spettatore reo di aver salutato il pezzo con un gridolino di entusiasmo: “Don’t say anything about my ma, or my bodyguard will kill you”), durante la quale il pubblico rimane in mistico silenzio. Dopo i quasi dieci minuti del mid-tempo bislacco di “This Is My First Day and I'm Indian and I Work at a Gas Station” la band lascia la scena, rientrando subito per due bis. Mark risale sul palco con la sigaretta in mano, ed invoca una sedia, lamentandosi per essere rimasto in piedi tutta la sera, mentre Neil Halstead ha suonato per due ore seduto (“Non capisco come tu faccia ad essere così magro, mentre io sono sempre più grasso”, gli dice ridendo); si stupisce di come la gente possa conoscere alcuni dei suoi brani più oscuri, visto che non ha appoggi discografici in Italia; infine, invita a suon di “fuck” e di buffa invettiva un membro della crew a cedergli qualcosa su cui sedersi (“you’ve been doing nothing all the evening, just watching your Facebook page”). Il ragazzo entra spingendo una sorta di baule su rotelle: Mark osserva l’oggetto fra l’ilarità del pubblico, ironizza sulla difficoltà di sedervisi perché è troppo alto, manda a quel paese un altro addetto il quale cerca di girare l’arnese sul fianco per abbassarlo. Quindi scala la cassa, si issa in piedi sulla stessa, ed afferma che “tonight I’ve been doing two things I never do: smoking cigarettes and climbing up on a fucking box on fucking wheels!”. Ovazione. Mano in tasca, microfono in mano, in piedi su un aggeggio con le ruote, il Nostro attacca una toccante “Caroline” (dal meraviglioso split con Jimmy LaValle, “Perils from the sea”), la cui tenue, fragile bellezza stride con la buffa postura scelta da Mark per veicolarla. In due lo aiutano a scendere per il pezzo di commiato, anch’esso tratto dalla collaborazione con LaValle, una versione a dir poco toccante – lenta cadenza in veste elettrica, ad un metro dai Red House Painters – di “Ceiling gazing”. In un angolo del palco Mark, chitarra in overdrive ed occhi chiusi, ripete in un mantra incessante “lay awake at night, ceiling gazing”. Il pubblico, timido e rispettoso, canta con lui, prima che Sua Maestà decida di non ripetere più il verso. Stacca il jack, ringrazia gli Italiani per la devozione, se ne va. Ovazione. Titoli di coda. (Manuel Maverna)