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   (2024)

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THE CURE   "Live Frequency Festival St.Polten 18-08-2012 "
   (2012)

Eccolo. Lo avevamo temuto ed aspettato ed è arrivato. È arrivato quel concerto che segna, inesorabile, il passaggio del tempo in chi è spettatore, specie se si considera tutto ciò che anticipa l’evento principale. Ho corso troppo, lo so; un piccolo passo indietro. Il Frequency Festival di St.Polten è pronto ad accogliere una delle ultime tappe del tour europeo dei Cure, giunto ormai ai capitoli conclusivi. L’unico concerto austriaco per questo tour del 2012 è ospitato presso una cittadina distante circa un’ora da Vienna, meta turistica per il celebre palazzo del Governo, l’antico centro storico e, più recentemente, per il Festival odierno. La musica, in realtà, sta dettando legge al Frequency dalla giornata di Ferragosto, quando band come Killers, Placebo, The Hives, Wilco confermano come il Festival austriaco si sia messo assolutamente in linea con i principali colleghi europei. La band di Smith arriva al concerto odierno in parte riossigenata dalla pausa di circa un mese che separa i nostri dall’ultima esibizione francese di Veilles Charrues; una pausa senza dubbio necessaria, considerato il tour estenuante e le maratone live a cui si stava sottoponendo il gruppo. Il primo impatto con l’arena del festival ci indica che non siamo di fronte ad una folla oceanica. È vero che i palchi allestiti sono tre, ma è altrettanto vero che sono molti gli spazi vuoti e (miracolo!) le code per accedere alle aree di ristoro, piuttosto che ai servizi igienici, sono minime. Leggendo i nomi in cartellone in attesa del main event, non possiamo che armarci di coraggio e sperare che il tempo voli ugualmente, nonostante chi scrive non sia minimamente interessato dagli artisti on stage. I Glasvegas ed il loro stonato sound che strizza l’occhio (od il look) al rockabilly sono una delle note migliori. Ancora pollice in alto per gli Hot Chip con un coinvolgente rock elettronico. Una “macchietta” il frontman della band che, attraverso la sua immagine di piccolo antidivo, contribuisce a mantenere alto l’umore sotto il palco (è molto più simile al personaggio “Casco Nero” del film “Balle spaziali” di Mel Brooks, piuttosto che a un idolo per ragazzine!). Della musica prodotta dai Bloc Party posso solo dire che non ho apprezzato neppure una nota. Non voglio discutere la (probabile?) bravura, arrivo solamente a constatare che la prova degli inglesi mi risulta assai noiosa e senza particolari picchi emotivi. Ma è quando arrivano gli Sportfreunde Stiller che inizio a vedere i segni inesorabile del passaggio del tempo. Questo trio tedesco (tutte informazioni raffazzonate post concerto, sia chiaro), coadiuvato da una serie di altri musicisti posti su un palco superiore (si sono permessi anche tre violiniste!), suonano un rock che dovrebbe essere giovane e spontaneo, ma finisce per risultare solo noioso ed imbarazzante. Ma l’imbarazzo più grande, in realtà, è proprio il mio, quando mi vedo all’improvviso accerchiato da una serie di ragazzine (qua e là, invero, c’è anche qualche bambino) con una età media che non supera i sedici anni! A questa immagine si aggiungono centinaia (non credo di esagerare) di ragazzi che praticano il “Crowd surfing”, ovvero il far passare una persona sopra il resto della folla e trasportarla fin sotto il palco. Questa è l’immagine dell’ora abbondante che anticipa l’ingresso dei Cure. In pericolo che mi caschi continuamente qualcuno sulla testa, assordato da una musica che fa schifo ed accerchiato da ragazzine urlanti! E, ciò nonostante, me la godo un sacco; mi ritrovo a ridere come un matto, affascinato dal vigore dei giovanissimi fan che vedo oggi (non dalla musica che, ripetiamolo, fa schifo). Finalmente, lo spettacolo ha termine (con, purtroppo, un ultimo bis per la folla in delirio!) e ci si appresta a fare sul serio. Si inizia ad allestire il palco della migliore band del mondo (concedetemi lo sfogo, dopo quello che mi sono sorbito), e devo concentrarmi nel ritornare nel clima giusto, avendo ancora stampato sul viso quell’immagine ebete, sorpresa e perplessa, frutto di quello che avevo appena vissuto. Alle 22.45 le luci del palco principale (che qui viene chiamato “Space Stage”) si abbassano ulteriormente, lasciando lo spazio al vociare sempre più intenso dei fan. Dal fumo prodotto in scena emergono i Cure nella formazione che caratterizza i concerti di quest’anno: Robert Smith, Simon Gallup, Jason Cooper, Roger O’Donnell e Reeves Gabrels si presentano in totale divisa nera. Insomma, la tradizione diventa religione! Il primo brano ricade su “Open” (è l’ottava volta solo quest’anno), per un’ovazione che raggiunge decibel davvero impressionanti. Smith si gode il suo pubblico, mentre il resto della ciurma entra nel clima del brano: rock decadente per un pezzo tra i migliori di sempre nella discografia degli inglesi. I Cure con “High” proseguono attingendo dall’album “Wish”, che nel 2012 spegne le venti candeline, e si continua con “Lovesong” e “Sleep when I’m dead”, quest’ultima risulta una delle più intense e meglio interpretate di oggi. Il gruppo appare in forma ed affiatato. Non mancano occhiate complici ed ognuno è pronto a ricoprire il proprio ruolo: gregari di lusso (ci piace in particolare osservare un Simon Gallup assai tonico e più agile rispetto a precedenti prove), dinanzi al grande deus ex machina del gioco. Senza pause e spaziando tra i variegati generi suonati e creati in questi anni, i Cure passano da pop song a rock song partecipative, fino ad arrivare a quelle canzoni cariche di dolore che, inevitabilmente, spengono i sorrisi e portano la mente ed il cuore lontano e lontano e lontano. In “Push” la band si diverte proprio un sacco, “The walk” (tra le migliori esecuzioni per tutto il tour) è una bomba dance rock che fa danzare tutto il pubblico, “Friday I’m in love” è una canzone che continua divertire (esattamente come nel clima di festa del celebre video del 1992), “Play for today”, “Wrong number” e “Just like heaven” sono eseguite al massimo e, così diverse tra loro, sembra impossibile che siano state scritte dalla medesima mano, “A forest” e “One hundred years” sono degli inni evergreen ed il momento è sempre catartico. Durante “Want”, invece, qualcosa non parte nel verso giusto e Gabrels non riesce a proporre il refrain che dovrebbe anticipare la voce del capo, mentre “Trust” e, soprattutto, “Pictures of you” mettono in primissimo piano la dolcezza del suono e delle liriche di Mr Smith. L’ultimo brano del main set è per la decadente “End” che, bella ed ipnotica al punto giusto, rimane un brano di qualità assoluta. Osserviamo Robert Smith sbagliare direzione nel ritorno al backstage… l’intervento di Roger O’Donnell, riporta il leader sulla retta via! Rientro per le ultime pop song di stasera. Prima “The lovecats”, poi le travolgenti “Close to me” e “Let’s go to bed”, portano tanta allegria e partecipazione; infine “Why can’t I be you” e “Boys don’t cry” chiudono definitivamente il concerto. Mano sul cuore, alcuni sorrisi ed un grande ringraziamento sono le ultime istantanee di oggi (e questa volta è O’Donnell a sbagliare direzione!). Si rimane ancora per qualche minuto in attesa di un ulteriore bis, ma le esigenze di organizzazione hanno imposto tempi più ristretti del solito. Oggi poco più di due ore e mezza. E pare un concerto breve. Accidenti, ad essere abituati bene! (Testo e foto: Gianmario Mattacheo)