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BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND "Live San Siro Milano 07-06-2012 "
(2012)
La parte maschile di questa recensione raggruppa tutte le persone che si presentano ai concerti senza essere fan dell’artista in cartellone (almeno di questo, s’intende!). La porzione femminile, invero, rappresenta la ragione dell’essere qui oggi: anni e anni di “duro lavoro” dietro le mosse di una star. Questo per spiegare come le righe che seguiranno cercheranno di coniugare i due aspetti, mettendo comunque in primo piano il lato emotivo dello spettacolo, imprescindibile quando a suonare è Bruce Springsteen con l’immancabile E Street Band. A Milano ha quindi luogo la prima tappa italiana del world tour che porta negli stadi di tutto il pianeta i successi del Boss, unitamente alle nuove canzoni del recente ”Wrecking ball”. Ci hanno raccontato mille volte di come gli spettacoli di Springsteen siano da considerare una prova coinvolgente ed emotiva, prima ancora che un evento musicale; la durata dello spettacolo, l’intensità della performance, il cuore che gli artisti sanno concedere alla platea, ne fanno un momento da ricordare. È con grande curiosità che ci apprestiamo (almeno la medesima parte maschile, di cui sopra) a verificare se tutte le mirabolanti voci circa i concerti del Boss siano effettivamente corrispondenti al vero. Sembra proprio che non siamo stati gli unici a pensarla così, considerato che lo stadio San Siro (sede, tra l’altro, del primo concerto italiano di Springsteen, nel 1985) si presenta gremitissimo, quando il sole è ancora alto nel cielo milanese. Le note di Ennio Morricone sono scelte, quale omaggio all’Italia, per anticipare l’ingresso on stage degli artisti: alle ore 20.30, il plotone della E Street band saluta il pubblico, mentre partono le note di “We take care of our own”, ovvero l’apripista del recente disco di inediti, cui fa seguito “Wrecking ball”, la canzone che titola l’album ed una delle migliori di questo 2012. Springsteen si presenta vestito tutto di nero con un giletino elegante; un’immagine un po’ lontana da quella ben più sporca e meno raffinata degli anni ottanta, quando la bandana e i blue jeans strappati rappresentavano un po’ l’icona della rockstar dei bassifondi. “Badlands” è il primo classicone del Boss con il quale “non si rischia” e si permette al pubblico (stiamo parlando di sostenitori non proprio giovanissimi!) di rompere il ghiaccio al meglio. Il pubblico più trasversale del mondo del rock, quello di Springsteen: anziani, 40enni che sono cresciuti con lui, giovani e anche bambini che conoscono le parole di “Waiting on a sunny day”, gruppi di ex ragazzi con borse di cibi e bevande (come se si andasse a casa di amici e non ad un concerto!). Certo parlare nel 2012 di E Street Band non è facile. Ci riferiamo, in particolare, alla mancanza di “Big Man” Clarence Clemons, mitico sassofonista e percussionista, da sempre anima e collante del gruppo. La sua recente morte ha messo, a giudizio di scrive, in seria discussione l’esistenza del gruppo e, più in grande, della stessa attività live di Bruce Springsteen. I due erano, infatti, molto più che colleghi; erano amici e compagni di viaggio. E, se le parole non sono mai sufficienti per spiegare certe cose, potremmo semplicemente rilanciare la copertina di “Born to run” (1975), quando i volti sorridenti di Springsteen e Clemons raccontavano una storia di musica e di amicizia assai difficile da passare inosservata. Ma, in questo senso, le emozioni/sensazioni del pubblico sono anticipate da Bruce Spingsteen, mentre inizia a presentare la band. Siamo all’inizio del concerto, ma il momento è già particolare. Quando sembrano finite le presentazioni (mancherebbe solo Van Zandt), un commosso Springsteen confessa che manca ancora qualcuno. Inizia con la moglie Patti Scialfa che “E’ a casa con i bambini, ma vi saluta tutti” (forse parteciperà al tour americano del Boss) e poi ancora quell’affermazione: “Manca ancora qualcuno”. Non c’è bisogno di aggiungere nomi o immagini; si alzano tutti in piedi, mentre l’occhio scivola su uno striscione che alcuni fan hanno portato da casa “Clarence e Danny, siete qui con noi”. Senza Big Man, il ruolo di numero DUE all’interno della band spetta ora a Steven Van Zandt, meglio conosciuto come Little Steven, chitarrista e corista del gruppo. La sua presenza scenica è assolutamente di primo piano e funge, per tutto il concerto, come la perfetta spalla di Springsteen. Tra gli altri notiamo in modo particolare Max Weinberg, abile e puntuale batterista, mentre Jack Clamons riceve ovazioni altissime, anche e soprattutto per essere il nipote di Clarence con il quale condivideva la passione per il sassofono. Poche sorprese se la band snocciola una serie di canzoni dal fresco di stampa “Wrecking ball”. L’album, che viene realizzato praticamente nella sua interezza e pare funzionare ancora meglio dal vivo, ha già tutte quelle caratteristiche trascinanti dello Springsteen sound, e ha il merito di far dimenticare le altre recenti prove discografiche, francamente inconsistenti. Si tratta di traditional rock americano (così si legge nei libri), quello del Boss. Un sound muscolare, prima ancora che tecnico e madido di sudore in ogni istante dello spettacolo. Il tecnicismo c’è e si nota (è la E Street Band, non dimentichiamolo), ma ciò che emerge è la spontaneità dell’esecuzione: è questa l’essenza del rock che Springsteen e soci mettono in scena. Siamo lieti di ascoltare “Born in the U.S.A.”, uno degli inni più conosciuti del Boss e, sicuramente, una delle più “truzze” mai pubblicate. Sono molte le canzoni che preferiamo alla trascinatrice dell’album del 1984, ma è indubbio che il sentirla live fa più che un certo effetto. Stesso discorso per “The river” e “Darkness on the edge of town” che rimangono inni della ditta, mentre “Johnny 99” (da “Nebraska”) è stravolta nel suo incedere e resa alquanto più rockettara. Springsteen dedica alcune canzoni anche agli sfortunati che hanno perso il lavoro a seguito della crisi mondiale, confermandosi ancora la rockstar più amata dalla classe operaia. “Land of hope and dreams” è una delle più acclamate dal pubblico, “The rising” (anticpata dall’accoppiata della promessa: “The promised land” e “The promise”) e la recente “Shakle and drown” sono due tra le migliori esecuzioni di stasera. Passano i minuti. Passano le ore, senza che i musicisti escano dal palco; solo guardando l’ora ci stiamo accorgendo che stiamo vivendo un’autentica maratona. Springsteen ricorda più volte la data del 1985, quando suonò per la prima volta in Italia. Sembra avere un certo debole per questo posto: il nome dello stadio è continuamente citato dal cantante che ammette di considerarlo un posto speciale in cui è bello tornare. Un popolo quello di Springsteen. Tutti cantano a squarciagola le strofe dei celebri successi. Si canta e ci si emoziona. Si emozionano gli artisti on stage e, di riflesso, ogni spettatore. Poi si guarda il cielo, perché la musica è sempre la colonna sonora della nostra vita, e ci si accorge di pensare più intensamente ad una certa persona. Ed allora, può capitare anche di piangere (sì, può succere anche questo ai concerti), e di sciogliersi fregandosene del vicino, perché anche lui, probabilmente, avrà una persona da ricordare ed un’emozione da liberare. Quando il concerto sembra arrivato all’epilogo, si accendono le luci sul pubblico, mentre Springsteen sembra voler tirare fuori le ultime energie. È da questo momento che inizia il concerto nel concerto, quello più sentito, quello più bello. Senza bisogno di atmosfere particolari (nonostante le fredde luci dello stadio Meazza), il concerto si riduce a poche, ma essenziali cose: Springsteen che avverte il bisogno solo del suo pubblico e i tanti fan che sentono il bisogno di stringersi intorno a lui. Ecco. E’ un po' come un cerchio che si chiude... l'energia che il Boss sprigiona con solo pochi accordi o una mossa con la chitarra, carica il pubblico (non solo di energia, ma anche di affetto). In risposta, il suo pubblico riesce a dare la voglia di continuare o, forse, la non voglia di finire un concerto che anche lui ricorderà come speciale. “Born to run” è la canzone che rappresenta al meglio Bruce Springsteen e la E Street Band, e “Hungry hurt” è cantata con partecipazione da tutta San Siro. Davvero infinito il concerto di oggi: Springsteen sembra dichiarare la resa, stendendosi a terra e mimando un pugile che ha subito un duro knock out (Little Steven gli versa dell’acqua addosso). Poi si alza e continua, come un ossesso, ad aizzare le prime file e suonare i superclassici del repertorio. Si ritorna sulla terra quando il Boss parte con “Dancing in the dark”, altro hit tratto da “Born in the U.S.A.”, e possiamo solo immaginare le ragazze (ora adulte) che si sono innamorate sognando di ballare con Bruce Springsteen, come nel celebre video degli anni ’80 (un paio di fortunate riescono a riproporre anche oggi il siparietto). “La fame” di pubblico del Boss viene ribadita anche in questo brano: sulla frase " I need a love reaction" smette di suonare, e va a prendersi la reazione d'amore dal suo pubblico... inutile dire che questa non tarda ad arrivare. Quando sembra (veramente) ultimato lo spettacolo, Springsteen parte con “10th avenue freeze out” e “Glory days”, e dallo schermo partono le immagini di Clarence Clemons on stage: è un’ovazione genuina da parte di tutti. Ultimo capitolo per “Twist and shout”, realizzata in versione oceanica. Qualche inchino e tanti applausi per un’esausta E Street band che raccoglie gli ultimi meritati saluti: un gruppo che ha posto in essere un concerto di tre ore e quaranta minuti senza concedersi la minima pausa è realmente un qualcosa di straordinario. Ci piace osservare l’ultimo atto di stasera, quando Springsteen stringe la mano ad ogni membro della E Street band prima di abbandonare definitivamente il palco. Un concerto sanguigno, come deve essere un concerto rock, mentre ognuno di noi si porta via il suo pezzo di storia ed i suoi ricordi. (testo e foto Gianmario Mattacheo & Katia Salice)