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   (2024)

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THE CURE   "Live Pinkpop Festival Landgraaf 26-05-2012 "
   (2012)

Ci eravamo lasciati nel contesto magico e quasi fiabesco della Royal Albert Hall di Londra. In quell’ultima occasione i Cure di Robert Smith regalarono ai fan di tutta Europa una serata denominata “Refections”: riproposizione integrale dei primi tre album, condita da encore, in cui Bsides dimenticate avevano trovato un inaspettato momento di gloria. Inutile tornare sulle parole già spese allora; quello fu un evento straordinario per qualità del concerto (sicuramente uno dei vertici assoluti nella carriera live del gruppo) e, come accennato, per location. Gli spettacoli di quest’anno non potranno essere caratterizzati dall’analoga atmosfera e, probabilmente, da una intensità assai difficile da eguagliare. Quando il concerto in cartellone è inserito all’interno di mega festival estivi, discorsi “più alti” non possono essere neppure contemplati, non può esistere termine di paragone. Quello che spinge l’appassionato a tornare (in questo caso in terra olandese) è l’amore per il gruppo, nella consapevolezza che anche grandi spazi pieni di persone (molte di esse intervenute per le più disparate ragioni), riunite in spazi sperduti chissà dove, possano regalare un po’ della solita emozione e dell’antica magia. E' questa la costante emotiva quando in cartellone ci sono i Cure: siano spazi accoglienti, siano angusti locali, o squallidi palasport, il gruppo di Robert Smith è in grado di vestire a festa ogni momento. Questa è una delle ragioni che spinge il fan a tornare. Il Pinkpop è uno dei più vecchi Festival musicali di tutto il mondo e, stando a quanto si legge, ha ospitato (negli oltre quaranta anni di carriera) più di quattrocento artisti. Che ci si trovi nei Paesi Bassi lo abbiamo già accennato; più precisamente, siamo a Landgraaf, cittadina che, posta a sud dell’Olanda, è divenuta celebre soprattutto per il sopraccitato evento musicale, la cui particolarità sta nel fatto che, cadendo verso la fine di maggio, anticipa tutti gli altri Festival estivi. Un Festival, dunque. Fattore che rende la giornata odierna ancora più lunga (e stressante); e, ad aggravare le condizioni, aggiungiamo un palinsesto un po’ troppo deboluccio per fungere da adeguato aperitivo, prima dell’entrata in scena dei Cure. Per ciò che concerne il Main Stage, i più credibili sono gli apripista (e a me sconosciuti) Moss, gruppo capace di trame chitarristiche accattivanti e da una spontaneità più che apprezzabile: piacevolmente emotivi. Poca, anzi pochissima roba, per i Kyuss che realizzano uno dei peggiori concerti mai visti dal recensore, mentre la padrona di casa Anouk e la sua band si presentano abili strumentisti galvanizzando i presenti, salvo il sottoscritto che non viene minimamente emozionato dal sound un po’ soul e un po’ leggero dell’istrionica cantante. Finalmente l’ora X scatta alle 20.45 (il sole detta ancora legge al Pinkpop), quando sul Main Stage Jason Cooper è il primo della band a posizionarsi davanti ai suoi tamburi, seguito da Roger O’Donnell e Simon Gallup, mentre Robert Smith (ultimo ad entrare in scena) è accompagnato da un boato liberatorio del pubblico: l’attesa è finita! Ma il primo grande scossone della serata si ha prima che la musica faccia il suo compito: Reeves Gabrels (divenuto celebre per le sue collaborazioni con David Bowie e poi anche con i Cure) accompagna i quattro sul palco. Non ci sono state dichiarazioni ufficiali della band in proposito. Pertanto, non ci è dato sapere se Gabrels entrerà a tutti gli effetti nel gruppo o se, viceversa, continuerà a vestire i panni del turnista. Certamente sappiamo che per tutto il tour europeo Reeves Gabrels sarà la seconda chitarra dei Cure. Ad oggi, invero, ci sentiamo di affermare che il suo ruolo appare più quello di un ”aiuto esterno” e questa situazione parrebbe essere confermata dalla scelta del gruppo di fare entrare il chitarrista da un’entrata secondaria rispetto a quella dei Cure e (dato ancor più significativo) qualche secondo dopo che la band ha ricevuto il saluto del pubblico. Staremo a vedere! Sul versante più prettamente musicale, ricordiamo che Smith e soci non hanno canzoni nuove da proporre, essendo il gruppo fermo a quel “4.13 dream” (ultimo lavoro sulla lunga distanza, targato 2008), in cui compariva ancora in formazione Porl Thompson, virtuoso chitarrista e cognato di Robert Smith. Il pezzo d’apertura, pertanto, va ricercato nella vasta discografia del gruppo, anche se i fedelissimi sanno che la partita verrà risolta solo fra due o tre titoli: troppo importante l’inizio dello show (e del tour, in questo caso) per non riproporre un pezzo da novanta. È “Plainsong” che accontenta i più romantici e dona quell’atmosfera così conosciuta e deliziosamente malinconica da portarci “sull’orlo del mondo”, come le liriche di Smith dicono da quel lontano 1989. Da “Disintegration” Smith continua ad attingere non poco. “Pictures of you” è un incanto pop romantico, “Lovesong” viene cantata dalle prime file che fungono come un coro perpetuo a sostegno del cantante (siamo alla prima tappa del tour, ma sembra che le corde vocali del capo siano già tarate al meglio) e “Lullaby” è il pezzo che, più di tutte, aizza il pubblico. Inaspettati ripescaggi si hanno con l’esecuzione di “Mint car” (singolo del 1996), “Doing the unstuck” e “Trust” (superlavoro alle tastiere per O’Donnell), ma è con “Bananafishbones” che il mago Smith tira fuori il coniglio dal cilindro. La sorpresa tratta da “The top”, nonostante manchi da tempo nelle scalette live, viene eseguita con un piglio particolarmente ispirato da Smith e dalle tastiere di O’Donnell, tanto da renderne una delle migliori interpretazioni della serata. E poi, spazio veramente un po’ a tutto. Dalle atmosfere di “A forest”, al rock partecipativo di “Push” e “From the edge of the deep green sea”, passando per le classiche pop song di “Friday I’m in love”, “Inbetween days” e “Just like heaven”. I vertici live di stasera vengono raggiunti con “Want”, ipnotica e rabbiosa allo stesso tempo, da “One hundred years” (Gabrels aiuta a non far perdere in intensità rumoristica), mentre “Play for today” viene stravolta al punto tale da rendere quasi irriconoscibile l’inizio. Quando si apre lo spazio per gli encore, i Cure portono in scena le pop song. È, al solito, adorabile “Close to me”, mentre “Lovecats” ha il merito di far sorridere il suo autore durante l’esecuzione del pezzo. Ci accorgiamo, tuttavia, che qualcosa sembra non andare. Alcuni organizzatori fanno cenni strani e, poi, sempre più eloquenti: i Cure stanno suonando ben oltre il tempo concessogli (siamo alle solite, insomma). Lo stesso Simon Gallup si accorge di quanto sta accadendo e guarda perplesso Roger O’Donnell (l’unico che pare vivere nel suo mondo è proprio il capitano, imperterrito nel suonare un bis dietro l’altro!). Dopo “Why can’t I be you”, Robert Smith è costretto a dichiarare al pubblico che il tempo per la musica è finito (da dietro le quinte il messaggio è arrivato preciso, questa volta). Si/ci concede ancora una “Boys don’t cry” per l’ultimo tormento degli organizzatori e poi i saluti finali (velocizzati anche questi ultimi!), insieme all’augurio di passare un ottimo festival. Dopo il concerto evento della Royal Albert Hall, quello odierno poteva davvero essere visto come un qualcosa di assai deludente (il rischio c’era non neghiamolo). L’energia e la qualità degli artisti, la scelta di alcune canzoni “abbandonate negli scaffali” da molto tempo e la solita personalità del leader, ne hanno fatto, invece, un altro momento indimenticabile. (Testo e foto Gianmario Mattacheo)