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THE CURE "Live Royal Albert Hall Londra 15-11-2011 "
(2011)
Accade che ci si sbagli. Chi scrive non pensava proprio di ritornare presso il più prestigioso teatro londinese per assistere ad un altro concerto dei Cure. Era il primo aprile del 2006 quando i Cure suonarono alla Royal Albert Hall. Un evento eccezionale che sembrava destinato ad essere ricordato come un unico episodio; unico ed irripetibile. Lo abbiamo detto sopra. Accade che ci si sbagli. E, così, Robert Smith decide di fissare ancora alcune date del “Reflections” tour, scegliendo quale unica data europea la Royal Albert Hall di Londra. Un progetto questo “Reflections” che, partito in Australia, terminerà negli States entro la fine dell’anno. “Reflections”, ovvero la decisione dei Cure di riproporre nella loro interezza i primi tre album del gruppo, con una formazione che ospita il ritorno di Lol Tolhurst e Roger O’Donnell. È grande la curiosità nel vedere ancora sul palco ed assieme Robert Smith e Lol Tolhurst, il primo amico che il futuro leader dei Cure conobbe in un autobus, nel lontano 1964. Da allora, invero, ne sono successe proprio tante di cose tra i due, fino a quando, alla vigilia dell’uscita di “Disintegration”, Smith (stanco degli eccessi dell’ex batterista) gli indicò la porta per un viaggio di non ritorno dai Cure. Cause legali (vinte da Smith, ovvio) e anni di lontananza hanno riappacificato i due, pronti a tornare insieme per questo breve progetto. Simile la storia di Roger O’Donnell che, estromesso da Smith nel 2005, è tornato sorprendentemente per questo “Reflections” (anche se lo abbiamo già visto sull’Isola di Wight nel settembre scorso): come cita un famoso libro di Stephen King …“A volte ritornano”! Un’altra particolarità del “Reflections” è che è stato e sarà suonato in posti esclusivi: dall’Opera House di Sydney, alla Royal Albert Hall di Londra, finendo negli americani Pantages Theatre (Los Angeles) e Beacon Theatre (New York). Location, quindi, che contribuiscono ad aumentare la suggestione ed il ricordo dell’evento. Succede che ci si sbagli. “Ci vedremo presto”: è questa la promessa di Robert Smith, pronunciata il 10 settembre sull’Isola di Wight, a conclusione di quello che il leader dei Cure decretava come l’unico spettacolo del 2011. Suonava, insomma, un po’ come la solita sparata del grande cantante e chitarrista; la storia dei Cure (che di fatto è la storia di Smith) si è sempre contraddistinta da affermazioni più o meno vere, volontari depistaggi, o frasi buttate un po’ qua ed un po’ là. Tutto faceva intendere che il “presto” di Smith sarebbe stato un tardo 2012. Il tempo di disfare la valigia, invece, e le fonti ufficiali dichiarano che la brillante idea del “Reflections” tour avrebbe previsto ancora sette date, suddivise nelle tre sopraccitate città. Non contando ormai più gli errori e gli sbagli, decido di non pensare, staccando la spina ed impostando il navigatore direttamente sulla Royal Albert Hall; il resto viene da solo. Il programma è già ampiamente conosciuto: riproposizione integrale dei primi tre album; quindici minuti di pausa tra un’esecuzione e l’altra; per concludere alcuni (molti, visto che stiamo parlando dei Cure) bis del periodo in oggetto. Robert Smith ha proprio voluto fare le cose per bene, non lasciando nulla al caso. Dal teatro, alle pause programmate, alla totale assenza di band di supporto; tutto ci fa pensare che quello di stasera rappresenti un evento nell’evento. Con circa quindici minuti di ritardo sull’ora indicata nel biglietto (un po’ insolito per essere a Londra), la band saluta il pubblico quando fa l’ingresso sul piccolo palco della Albert Hall. È un trio quello che esordisce stasera, pronto a diventare quartetto con l’esecuzione di “Seventeen seconds” (Roger O’Donnell) e quintetto per l’album “Faith” (entrerà Laurence Tolhurst). Di nero vestito, il leader si piazza davanti al microfono per iniziare la performance dell’album che diede inizio alla leggenda. Ed allora ci sembra naturale (come ad essere sul divano di casa) sentire, una dietro l’altra e nella sequenza storica, tutte le tracce di “Three imaginary boys”. La grande curiosità sta nell’ascoltare quelle canzoni che sono state negli anni un po’ “dimenticate” dai live show dei Cure. Penso che sia un regalo eccezionale ascoltare “Another day” o “Foxy lady”, per esempio (e non so quante volte potrà ricapitare in futuro). Con “Subway song”, Smith alterna la consueta chitarra ad un’insolita armonica (caspita sa anche suonare quella!), lasciando il terribile urlo inciso nel 1979 al detto strumento. “Grinding halt” è uno di quei brani che costringe le prime file a fare gli straordinari per non crollare sotto la pressione degli altri fan, mentre la canzone che titola l’intero album è eseguita con una classe particolare dal trio. A testimoniare che tutto deve essere fatto con precisione chirurgica, i Cure concedono anche quella “Weedy Burton”, ovvero la ghost track musicale di “Three imaginary boys”, in cui i Cure (sicuramente divertendosi un sacco) si cimentano con il jazz. Dopo la pausa, entra il quartetto di “Seventeen seconds”. Ad accompagnare il leader, ci sono il fidato Simon Gallup al basso, Jason Cooper (il batterista di più lunga militanza nella band) e Roger O’Donnell alle tastiere. Dall’intro strumentale di “A reflection”, passando per “Play for today” ed “In your house” i Cure sono perfetti, rendendo i brani proposti ancor meglio degli originali, targati 1980. “Secrets” è un capolavoro dimenticato; “A forest” è così emozionante che sembra essere cantata per la prima volta; “M” (a proposito, Robert ha in tutte le sue chitarre un adesivo che ricorda quest’importante lettera) ed “At night” sono brani che normalmente fanno visita nei concerti del gruppo, ma eseguiti comunque con un’intensità non comune. Quando il gruppo rientra per “Faith” è già un quintetto. Non possiamo non guardare per un attimo Lol Tolhurst (tanto per distogliere un po’ lo sguardo da Robert). Il suo ingresso nel “Reflections” tour è probabilmente un atto di pace che Smith ha voluto concedere al vecchio amico, un regalo che, più di mille parole o cause legali, vuole mettere la parola fine al passato. Probabilmente non ci sarà un futuro nei Cure per Tolhurst dopo il “Reflections”, ma è innegabile che rivedere insieme i due musicisti sullo stesso palco fa una certa sensazione. Tornando al discorso musicale, possiamo dire che è un’emozione particolare poter sentire dal vivo un brano come “The holy hour”, apripista dell’album del 1981. L’atmosfera che permeava tutto “Faith” è assolutamente ritrasportata questa sera. Brani come “Other voices”, “All cats are grey”, “The funeral party” (una di quella più toccanti oggi) e “The drowning man” hanno un’atmosfera ineguagliabile che fanno questo album uno dei più riflessivi ed intimisti del gruppo. Per quanto riguarda, invece, la canzone che titola il lavoro del 1981, c’è poco da aggiungere, se non che è una delle perle assolute della ditta ed una di quelle maggiormente sentite dal leader: inutile ribadire che viene cantata con un pathos unico. Smith è di parola e, dopo l’ultima pausa, partono i tre encore (intervallati da pochissimi minuti l’uno dall’altro). Sono le Bside che rompono il ghiaccio. Per “World war”, “I’m cold”, “Plastic passion”, “Descent” e “Splintered in her head” vale il discorso fatto in precedenza: probabilmente, dopo il “Reflections tour” non le ascolteremo mai più su un palco! “Boys don’t cry” non poteva mancare, mentre “Killing an arab” riesce sempre ad essere fantastica. Il primo singolo dei Cure non invecchia nel tempo ed è cantato a squarciagola da tutta la Royal Albert Hall. Il leader ripiegato su sé stesso, intento a tirare fuori dalla sua chitarra i suoni più acidi possibili e Gallup, scatenato nel rigirarsi con il suo basso indemoniato, sono una delle fotografie migliori che conserviamo nella memoria. “Charlotte sometimes” è quel singolone dark che, con il suo muro di tastiere, ha fatto ballare migliaia di persone in migliaia di discoteche sparse nel mondo, mentre “The hanging garden” (45 giri nel 1982) è una piacevolissima “intrusa” tratta da “Pornography”. L’ultimissimo rientro è dedicato alle primissime gemme pop di casa Smith. “Let’s go to bed”, “The walk” e “The lovecats” trasformano la Royal Albert Hall in una bolgia terrificante. Regna il divertimento più vero e puro, mentre si spengono le ultime note del concerto. Smith saluta e, ciondolando come da copione, si allontana dal palco. Si riaccendono le luci ed ancora una volta non ci sembra vero. Ce ne andiamo, piano piano e senza fretta, con un po’ di stanchezza, parecchie emozioni in più ed un velo di malinconia. La musica non è tutto. A volte è solo un contorno, un qualcosa di molto piccolo o, forse, è solo un dettaglio di qualcosa di ben più grande che si chiama vita. Ma, a volte, i dettagli sono così importanti! (Testo e foto Gianmario Mattacheo)